Sbarchi. L’Italia senza un piano da presentare all’Europa

Sbarchi. L’Italia senza un piano da presentare all’Europa

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Il Ministro dell’Interno Marco Minniti, a mo’ di sfida (scherzosa ma non troppo) mi dice: «L’altro ieri decine e decine di minori stranieri, che avevano attraversato il confine a Ventimiglia, sono stati respinti in Italia dai gendarmi francesi. Ma non uno di voi ha protestato contro il modernissimo Emmanuel Macron». Detto fatto: che i governi di Francia, Spagna, Inghilterra, Austria – solo per citarne alcuni – si comportino in maniera costantemente conservatrice, spesso ostile e talvolta ignobile nei confronti di profughi e migranti, lo si è detto ripetutamente (su queste colonne, poi). E lo ha ribadito più e più volte, con particolare vigore, Medici Senza Frontiere. Ma da quando in qua le responsabilità altrui meritano di attenuare le nostre?

E, di conseguenza, se le più recenti affermazioni del nostro governo («potrebbe essere difficile permettere futuri sbarchi di migranti nei porti italiani») appaiono tragicamente errate, le gravissime colpe dei governi europei sono appena una attenuante e non certo una giustificazione. D’altra parte, non c’è dubbio che – di fronte a polizie di paesi europei che impediscono alle persone più fragili persino di chiedere protezione – tocchi al nostro governo fare in modo che la volontà politica degli Stati membri si indirizzi verso scelte radicalmente nuove. Scelte consapevoli e condivise, lungimiranti e coraggiose. Ma l’evocazione del blocco nei confronti delle navi mercantili o dirette da Ong che trasportano naufraghi, oltre a non essere praticabile (contravverrebbe a tutte le convenzioni internazionali), risulta totalmente sbagliata. E non solo sbagliata (Avvenire: «Perché non si può e non si deve annunciare ciò che non si può e non si deve fare») ma anche debolissima, in quanto concentrata su una fase circoscritta dei flussi – le partenze dalla Libia e il salvataggio – senza affrontare l’intera questione: a partire dalla consapevolezza che niente e nessuno potrà fermare movimenti umani di tale portata. Al contrario, l’uso dei cosiddetti «strumenti di dissuasione» (muro, filo spinato, motovedette) non portano che a incrementare sofferenza e morte. E a rendere l’Europa più debole e vulnerabile, in quanto disposta a sacrificare garanzie e tutele proprie degli ordinamenti democratici; e ad arretrare sul piano della protezione della dignità della persona. Ma neppure quanto fatto dall’Italia, spesso con eccezionale generosità, può costituire l’unica modalità d’intervento: occorre una soluzione duratura nell’ambito dello spazio del continente europeo e dell’unione politica dell’Europa.

Era l’ottobre del 2014 quando, in seguito all’ennesima tragedia nel Mediterraneo, abbiamo presentato un Piano di ammissione umanitaria, frutto del confronto con l’associazionismo, con le organizzazioni internazionali e con alcune delle più alte cariche istituzionali italiane.

I punti essenziali erano e sono: l’urgenza di prevenire la terribile sequenza di morti nel Mediterraneo e di garantire viaggi legali e sicuri; e la necessità di distribuire in maniera più equa e razionale l’afflusso di profughi sull’intero territorio europeo. Cuore della proposta, l’individuazione dei beneficiari di protezione internazionale in quei paesi africani e mediorientali dove i movimenti dei fuggiaschi si addensano, attraverso un sistema di presidi coordinato a livello europeo e assicurato dalle grandi organizzazioni umanitarie, che accolgano chi si rifugia in quei territori. Successivamente, si dovrà garantire il trasferimento dal presidio internazionale allo Stato di destinazione, dove poter formalizzare la richiesta d’asilo, fissando quote eque di accoglienza per ciascuna nazione. Reperire i fondi per l’attuazione di un simile progetto non è certo un’impresa impossibile per l’Unione. (Leggere, poi, sulla prima pagina del Corriere della Sera la dettagliata riproposizione di questo Piano, non so dire se induca maggiore soddisfazione per un consenso tanto autorevole o più amara frustrazione per il tanto tempo buttato via).

La leva su cui esercitare la pressione politica da parte del nostro Paese è una sola, ed è molto solida: l’Italia è il quinto contributore netto dell’Unione europea e solo una parte di quanto versato – negli ultimi sette anni, circa 73 su 111 miliardi di euro – ritorna nel nostro Paese. È arrivato dunque il momento di esigere che il principio di solidarietà tra gli Stati venga attuato concretamente proprio alla luce di queste cifre. Perché, in quanto principale frontiera esterna dell’Unione, non lavorare per destinare quella parte eccedente la parità dello scambio tra dare e avere per l’attuazione di una politica interamente destinata all’accoglienza di migranti e profughi?

Certo, a molti potrà apparire questa una proposta avventurista, scarsamente praticabile e inconciliabile con il realismo politico. Ma davvero si può credere che il blocco dei porti nei confronti di navi straniere cariche di donne, uomini e bambini che fuggono da guerra e miseria sia un provvedimento meno avventurista e più realistico?

FONTE: Luigi Manconi, IL MANIFESTO



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