Schiavismo, retata anti-caporali in Puglia

by Gianmario Leone | 22 Giugno 2017 9:14

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Otto indagati, un arresto in carcere e due ai domiciliari. Un’azienda di Ostuni che reclutava braccianti costrette a lavorare oltre 10 ore al giorno, contro le 6,5 dichiarate in busta paga con tanto di truffa all’Inps, a volte dalle 3 del mattino a mezzanotte, finanche 7 giorni su 7. Come non bastasse, i lavoratori impiegati in provincia di Bari nei campi di Polignano a Mare erano costretti a versare 10 euro a testa per ogni giornata lavorativa, a titolo di rimborso spese carburante. In pratica, una vera e propria tangente.

È una storia di sfruttamento senza limiti e regole, di dignità calpestata oltre ogni decenza, quella svelata ieri dalla Procura di Brindisi, che ha arrestato Anna Maria Iaia (50 anni, di San Vito dei Normanni), dipendente dell’azienda 2 Erre srl, che secondo l’accusa gestiva un giro di associazione per delinquere dedita allo sfruttamento. Ai domiciliari Giuseppe Bello (49 anni, di San Michele Salentino) e Anna Errico (73), rispettivamente autista del pulmino che conduceva le braccianti nei campi dove erano richieste e la madre della presunta caporale.
Secondo l’inchiesta, Bello esercitava anche l’attività di vigilanza sulle prestazioni lavorative della squadra di braccianti che lui controllava, impegnata nel magazzino o nelle campagne, per conto dell’azienda brindisina. Nelle carte dell’inchiesta si legge che l’uomo concordava con la stessa Iaia le assunzioni. Fra il gennaio 2015 e nel novembre 2016 avrebbero reclutato 22 braccianti agricoli trasportandoli quotidianamente da San Vito dei Normanni a Carovigno a bordo di un veicolo Fiat Ducato intestato proprio alla 2 Erre srl, e di un veicolo Fiat Scudo di proprietà della donna. L’attività di caporalato sarebbe proseguita anche tra il 4 novembre 2016 e l’1 marzo 2017, quando avrebbero reclutato almeno altri 28 operai, dai quali si sono fatti consegnare copia dei documenti di identità e dei tesserini di Codice fiscale da utilizzare per li contratti di lavoro e le buste paga. Gli inquirenti hanno visionato i registri delle presenze e delle paghe dove, a fronte di un totale complessivo di salario lordo pari a 131,97 euro, veniva invece corrisposta la paga giornaliera di appena 59,53 euro.

I braccianti ricevevano ogni mese dalla Iaia l’assegno dello stipendio e relativa busta paga, insieme con un bigliettino scritto a mano sul quale era annotata la somma da dover restituire in nero per onorare il debito dei 10 euro giornalieri. Quindi, dopo aver incassato l’assegno in banca tornavano a casa della donna per consegnare l’importo da restituire. Addirittura, è stato documentato, secondo quanto riferito dal procuratore facente funzioni di Brindisi, Raffaele Casto, un tentativo di inquinamento delle prove, provando a costringere alcuni braccianti a negare di aver corrisposto i 10 euro per il trasporto.

Indagate a piede libero altre quattro persone: tra questi il titolare dell’azienda, Francesco Semerano di Ostuni. I tempi recenti dell’inchiesta hanno consentito agli inquirenti di fare riferimento anche all’ultima normativa in materia di caporalato, quella del 2016. La nota lieta, se così si può dire, è che l’inchiesta è partita grazie alla denuncia delle stesse braccianti. I carabinieri hanno effettuato anche intercettazioni telefoniche e ambientali, hanno acquisito tabulati telefonici e usato i sistemi gps. E proprio da queste intercettazioni emerge il lato più oscuro e drammatico di questa vicenda. «Zoccola, puttana, fai veloce che stasera è tardi sennò facciamo notte»: questo il torno con il quale il Bello si rivolgeva alle braccianti, censurate dal gip Paola Liaci nell’ordinanza di custodia cautelare. Con la Iaia che non era da meno: «Tu non capisci un cazzo di quante giornate hai fatto», dice rivolta ad una delle braccianti in una conversazione telefonica. «Quando ti arriva la disoccupazione un bacio in fronte mi devi dare, hai capito? Un bacio in fronte».

Una stretta intorno al caporalato da parte della procura di Brindisi, che aveva tratto in arresto altre quattro persone, tutte di origini italiane, appena due giorni fa, per aver sfruttato nei campi di ciliegie e nelle vigne di Turi, in provincia di Bari, almeno 15 donne (italiane e due straniere) originarie del brindisino e del tarantino. Anche in questo caso, orari ben oltre le 6 ore e mezza del contratto e paghe decurtate: ancora una volta il tutto partito dalle denunce delle lavoratrici. Ed i soliti, orrendi insulti intercettati che lasciano sgomenti: «Alle femmine pizza e mazzate ci vogliono, altrimenti non imparano», e «femmine, mule e capre tutte con la stessa testa».

FONTE: Gianmario Leone, IL MANIFESTO[1]

 

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  1. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

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