Giuliano Pisapia: “Triton un errore di Matteo ma Macron è peggio Se mi candido aiutatemi”

by MAURO FAVALE | 10 Luglio 2017 9:31

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Non calca troppo la mano su quell’espressione usata da Matteo Renzi, «aiutiamoli a casa loro», ritenuta «sbagliata», sì, ma in ogni caso «estrapolata dal contesto complessivo del libro». È duro, invece, il giudizio su due «errori» che imputa ai governi precedenti: «Il primo è il Trattato di Dublino che prevede che la richiesta di asilo si possa fare solo nel luogo in cui si sbarca», con il nostro Paese penalizzato, dunque, per la sua posizione geografica. Il secondo è Triton, sottoscritto da Renzi, per cui «l’Italia è l’unico porto in cui far approdare le navi di migranti, un accordo di cui nessuno sapeva e non a caso tenuto nascosto».

Seduto su una poltroncina di pelle rossa, sul palco del Teatro Nuovo Gian Carlo Meotti di Spoleto, ospite del “Festival dei due mondi”, Giuliano Pisapia torna a parlare dopo il debutto il primo luglio in piazza Santi Apostoli a Roma di quella che definisce «la nuova casa comune del centrosinistra », ideale erede dell’Ulivo prodiano del 1996, e — lascia intendere più volte — non dell’Unione, la sua versione «profondamente differente» del 2006.

L’ex sindaco di Milano, cauto nei modi e nelle parole, sollecitato dalle domande di Corrado Augias, fa di tutto per non strappare con il segretario del Pd ma sulla questione migranti traccia una linea in antitesi rispetto a quella illustrata dall’ex premier nel suo libro “Avanti”: «Io penso che noi abbiamo il dovere morale, giuridico e politico di salvare vite. Questo è il primo presupposto ».

La platea lo applaude mentre parla della necessità di cercare «mediazioni nobili e non compromessi ignobili» per affrontare un tema che sta dividendo il Paese. Cita l’esempio di Milano che, sotto la sua guida, ha assistito «oltre 100 mila persone», consentendo loro di raggiungere gli Stati del Nord Europa. «Abbiamo fatto una cosa umana», sottolinea prima di dirsi «imbestialito con il nuovo presidente francese Emmanuel Macron». «Questo — lo apostrofa — ha vinto le elezioni per due motivi: da una parte perché la sinistra non era unita, altrimenti sarebbe arrivata al ballottaggio, e dall’altra esaltando l’europeismo. Nei fatti, però, non dà nessun contributo e, anzi, rimanda in Italia chi, da Ventimiglia, era riuscito a passare in Francia».

Poi prova anche a lanciare un paio di idee, come quando chiede al ministro dell’Interno, Marco Minniti, di «confrontarsi di più con chi ha posizioni diverse dalle sue». In questo modo, spiega, per accelerare le procedure per la richiesta di asilo politico si sarebbero potute eliminare «le commissioni territoriali che creano tempi lunghi, anziché abolire per decreto uno dei tre gradi di giudizio».

Sulle questioni più politiche, Augias incalza l’avvocato che ha militato «da indipendente» in Rifondazione Comunista, ricordando (e confutando così la ricostruzione contenuta nel libro di Renzi) il suo voto di fiducia a favore del governo Prodi nel 1998, al contrario di quanto fece il partito guidato allora da Fausto Bertinotti. Alle spalle di Pisapia, intanto, scorrono le immagini degli interventi del segretario Dem all’assemblea dei circoli di Milano, di Pierluigi Bersani a Santi Apostoli, di Tomaso Montanari al Brancaccio, quando lo storico dell’arte disse, a proposito del Pd, che è «ormai un pezzo della destra». «Si è chiesto come mai non ci fossi a quella riunione pur essendo stato invitato», replica l’ex primo cittadino che, al contrario di Montanari, tende una mano ai Democratici: «Sono più le cose che ci uniscono delle differenze: si pensi allo ius soli, alle unioni civili alla legge sul fine vita ». Per questo, l’invito è a trovare «un accordo programmatico su 10 punti: 5 realizzabili in tempi brevi e altri 5 in un periodo più lungo». Lui, tre proposte le fa subito: «Lotta alla povertà e alle disuguaglianze, partendo dai manager: è chiaro che se vuoi far entrare nel pubblico un manager bravo per rimettere le cose a posto devi pagarlo. Ma nel suo stipendio c’è una parte fissa ed una variabile: se questa fosse tarata sulla base di come quel tipo di rilancio si riverbera anche nel salario dei soggetti più deboli, sarebbe davvero rilevante e cambierebbe il Paese da così a cosi». E, a seguire, la casa, «con quelle abitazioni divenute di proprietà delle banche da affittare a chi le abita a prezzi calmierati», e la burocrazia che spesso «aiuta la corruzione ».

Infine, a conferma della definizione coniata da Gad Lerner di «leader riluttante», Pisapia confessa: «Se non riuscirò a riunire la sinistra mi arrendo, non sono la stampella di nessuno». Intanto, però, per perseguire questo obiettivo, chiede aiuto: «Se mi candiderò non lasciatemi solo — dice prima di alzarsi dalla poltrona rossa per l’applauso finale — tiratemi per la giacchetta. Così, a Milano, sono stato aiutato a evitare molti errori». Chiusura, parafrasando Jfk: «Ognuno di noi può fare qualcosa».

Fonte: MAURO FAVALE, LA REPUBBLICA[1]

 

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