Libia. Missione italiana senza tetto né legge internazionale

Libia. Missione italiana senza tetto né legge internazionale

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Innanzitutto serve un ripasso di diritto internazionale. Il principio di non-refoulement così come enunciato nella Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951 non lascia margini interpretativi: l’obbligo di non inviare un rifugiato, o un richiedente asilo, in un paese dove potrebbe essere a rischio di persecuzione, non è soggetto a restrizioni territoriali. Se non bastasse, una esplicita norma sul non respingimento è contenuta nell’art. 3 della Convenzione contro la tortura del 1984, che proibisce il trasferimento di una persona in un paese dove vi siano fondati motivi di ritenere che sarebbe in pericolo di subire tortura, arbitraria privazione della vita o altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti.

Anche l’art. 19 della Carta dei diritti fondamentale dell’Unione Europea è molto chiara: il divieto di respingimento non può in alcun modo essere aggirato, neanche quando si chiamano i respingimenti in maniera diversa, e cioè azioni di soccorso in mare oppure operazioni tese a stroncare il traffico di persone. Così dice la Corte europea dei diritti umani nella parte finale della sentenza di condanna all’Italia nel 2012 sul caso Hirsi-Jamaa e altri, definendo illegali i respingimenti verso la Libia del 2009.

E già in una sentenza del 2001 la Cedu aveva sostenuto che la competenza giurisdizionale di uno Stato può essere estesa extra-territorialmente se quello Stato «attraverso l’effettivo controllo del territorio in questione e dei suoi abitanti all’estero come conseguenza di occupazione militare o attraverso il consenso, l’invito o l’acquiescenza del governo di quel territorio, esercita tutti o parte dei pubblici poteri che di norma sono esercitati da quel governo».

E, più recentemente, il regolamento istitutivo dell’agenzia Frontex del 2014 specifica ulteriormente che gli Stati membri impegnati a prestare assistenza a qualunque natante o persona in pericolo in mare e durante un’operazione marittima, devono assicurare che le rispettive unità partecipanti si attengano all’obbligo internazionale di non respingimento, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova.

Rispolverati i fondamentali, la domanda è: può tutto questo impianto di diritto internazionale essere accantonato – e di fatto scavalcato – se a fare il lavoro sporco davanti alle coste di Tripoli non saranno i mezzi della Marina militare italiana ma il più esile – e tutto da mettere in piedi – dispositivo della Guardia costiera libica?

Immaginare lo scenario che potrebbe verificarsi nei prossimi mesi in quel tratto di Mediterraneo evoca immagini terribili o drammaticamente comiche, se non stessimo parlando di esseri umani disperati e già duramente provati da quanto subito in Libia prima di imbarcarsi: gommoni carichi di donne, uomini e bambini in mare, senza motore, alla deriva, in attesa che vengano prima intercettati dalle nostre navi militari e poi avvicinati dalle motovedette libiche per essere riportati indietro in modo che tecnicamente non si possa parlare di respingimento. E una volta in Libia? A chi verranno riconsegnati? Ci saranno i campi delle organizzazioni internazionali? Ci saranno i funzionari europei pronti a raccogliere le richieste di asilo e a smistare i richiedenti nei diversi Stati europei? Domande a cui oggi evidentemente non si può dare una risposta.

Tutto ciò sempre che la situazione in mare non sia grave e i gommoni non stiano per affondare, circostanza che comporterebbe invece l’obbligo immediato da parte dei nostri militari di intervenire, come tra l’altro orgogliosamente fatto finora. E a quel punto? Non potremmo riportare i profughi in Libia e, secondo quanto previsto dal diritto del mare, ci si dirigerebbe in Italia, luogo sicuro più vicino.

Il piano del governo Gentiloni dovrebbe costare circa 7 milioni di euro al mese, cifra di poco inferiore al costo mensile dell’operazione Mare Nostrum. Un dettaglio su cui interrogarsi profondamente di fronte alla svolta rischiosa e irresponsabile che si sta attuando.

FONTE: Liana Vita, IL MANIFESTO



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