«Aiutiamoli in Africa» nella versione del filantropo Bill Gates

«Aiutiamoli in Africa» nella versione del filantropo Bill Gates

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Also spracht Bill: così parlò Bill. Bill Gates. L’uomo più ricco del mondo. Il filantropo globale. Forte di una sfera d’influenza che solo il potere dei soldi può conferire, a poche ore dall’inizio del tormentato G20 di Amburgo, il miliardario di Seattle ha dispiegato dalle colonne del giornale tedesco Welt am Sonntag il suo per nulla empatico messaggio sull’Africa, irradiato su tutti i media internazionali. Ha colto l’occasione del primo G20 dell’era Trump per intromettersi nel grande gioco internazionale e somministrare l’ennesima dose di autoreferenziale semplificazione: raccomandare ai governi Ue di rendere più difficili gli ingressi ai profughi e ai migranti africani.

L’invincibile prescrizione di angoscia del super-ricco Gates è proprio la medicina che serve a uccidere definitivamente le opinioni pubbliche del nostro continente, già infestate dalla patologia dell’«espulsione dell’Altro», come scrive il filosofo coreano Byung-Chul Han, ma contiene la forza di un disvelamento: il denaro è un efficace ma cattivo mediatore di identità.

Il primo paradosso è il filantropo che accusa l’Europa di eccessiva generosità. Alla siderale distanza che separa il più ricco dei primi otto miliardari della Lista Forbes 2016 dalla feroce realtà che artiglia il viaggio di chi lascia il proprio paese e la vita nei paesi di approdo, si innesta l’esplicitazione della diffidenza verso le masse in fuga, non più rappresentabili con il sentimentalismo del dolore spettacolo.

Il messaggio di Bill smaschera l’ideologia innovativamente conservatrice della filantropia strategica del XXI secolo che, in perfetta coerenza con il mantra occidentale della lotta alla povertà, si arroga la titolarità di formulare le domande e le risposte ai problemi del mondo. Designa e fissa simbolicamente l’altro dandogli un nome – quello di povero, necessariamente ridotto a un ambito angusto di esperienza. Nega insomma all’altro la possibilità di auto-affermazione.

In nome della presunzione di restituire alla società una parte della ricchezzaself-made accumulata, il filantropo Gates ha rimodellato il paradigma della mano che offre e di quella che riceve con un determinismo tecnologico che condiziona le politiche delle organizzazioni internazionali e le pratiche di molti governi, donatori e beneficiari, nel campo sanitario, agricolo e finanziario. Così facendo, tramite la Bill & Melinda Gates Foundation creata nel 2000, è riuscito a concentrare su di sé nuove ricchezze e ad affermare cultura e valori di mercato nei territori della solidarietà e del diritto, grazie alla rete di investimenti incrociati necessari all’iniziativa filantropica.

L’agenda dei diritti e dell’auto-determinazione dei popoli – incluso quello dei migranti – che non si sottomettono allo scambio non trova spazio in questa logica.

L’esercizio del diritto alla fuga che gli africani (e non solo) scelgono, talora disperatamente, come unica rotta per una vita dignitosa viene presentato anzi come una minaccia.

Oltre a invocare la chiusura degli ingressi per rispondere alla «tumultuosa esplosione demografica» africana, Gates chiede di «aumentare in modo consistente gli aiuti allo sviluppo alle terre d’oltremare». Con il modello pubblico-privato sempre più in auge a dispetto della sua insostenibilità, Gates punta a rafforzare l’egemonia filantropica e quella dei vecchi e nuovi attori privati che l’Onu convoca ai tavoli dello sviluppo sostenibile entro il 2030.

Tra bugie e falsi miti sugli aiuti, la comunità internazionale si trastulla, invece di cambiare rotta e intervenire sulle relazioni di potere, sui nodi strutturali di un ordine economico neoliberista evidentemente inefficiente, che arricchisce Bill Gates e i suoi pari, ma produce ingiustizia e disuguaglianza, insicurezza sociale e mancanza di prospettiva. Gli africani devono restare a casa loro, dice Gates senza fronzoli, ma gli europei sono legittimati a spostare sempre più a sud i confini e il lavoro sporco dell’occidente in funzione securitaria e anti-migratoria. Corsi e ricorsi neocoloniali.

Ma perché Gates, che a Davos nel 2016 elogiava Germania e Svezia per la loro accoglienza dei migranti, sfodera tanto cinismo? Il cambio di rotta rimanda alla frattura interna al club dei ricchi dediti alla filantropia. Quella, risaputa, tra Bill Gates e George Soros, tra l’imprenditore monopolista e lo speculatore iconoclasta inviso a Trump, impegnato da sempre contro il totem della proprietà intellettuale e a favore dei diritti civili e politici, inclusi quelli dei migranti come lui.

Gates cavalca senza indugio l’astio della nuova amministrazione statunitense contro Soros – che finanzia i progetti sui migranti in Europa – per affermarsi come interlocutore affidabile verso le élite imprenditoriali che tanto piacciono a Trump, checché se ne dica.

La società consegnata unicamente alla legge neoliberista del mercato perde le difese immunitarie e la tensione tra democrazia e capitalismo si assottiglia perché in sostanza scompare la democrazia.

Ci resta l’ottimismo imprenditoriale di Bill, che svuota gli esseri umani riducendoli a merce da bloccare.

FONTE: Nicoletta Dentico, IL MANIFESTO



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