Immigrazione, divieto di critica. Torna il reato di vilipendio

Immigrazione, divieto di critica. Torna il reato di vilipendio

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A un’interrogazione del senatore Manconi risponde il viceministro dell’interno confermando la tesi della denuncia, con l’accusa di «aver ingiuriato la polizia»

Ci fu un tempo, nel nostro Paese, in cui le contestazioni di vilipendio erano all’ordine del giorno quando erano ritenuti reati il canto dell’Inno dei lavoratori o il grido «Abbasso la borghesia, viva il socialismo!». Erano gli anni dello stato liberale e, poi, del fascismo quando si riteneva che la libertà non fosse quella di esprimere le proprie idee ma «quella di lavorare, quella di possedere, quella di onorare pubblicamente Dio e le istituzioni, quella di avere la coscienza di se stesso e del proprio destino, quella di sentirsi un popolo forte».

Poi è venuta la Costituzione con l’articolo 21: «Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». A tutela dell’anticonformismo e delle sue manifestazioni, poco o punto accette alle forze dominanti perché, come è stato scritto, «la libertà delle maggioranze al potere non ha mai avuto bisogno di protezioni contro il potere» e, ancora, «la protezione del pensiero contro il potere, ieri come oggi, serve a rendere libero l’eretico, l’anticonformista, il radicale minoritario: tutti coloro che, quando la maggioranza era liberissima di pregare Iddio o osannare il Re, andavano sul rogo o in prigione tra l’indifferenza o il compiacimento dei più». Nella prospettiva costituzionale le idee si confrontano e, se del caso, si combattono con altre idee, non costringendo al silenzio chi non è allineato al potere contingente o al pensiero dominante.

Come noto, peraltro, la Costituzione ha tardato a entrare nei commissariati di polizia e nelle stazioni dei carabinieri (nonché, in verità, nelle aule di giustizia). Un saggio di questo ritardo si trova in un’arringa di Lelio Basso del 10 marzo 1952 davanti alla Corte d’assise di Lucca in cui segnalò il caso di un capitano dei carabinieri che, alla domanda postagli nel corso di un dibattimento, «se per avventura avesse mai sentito parlare della Costituzione repubblicana», aveva «candidamente risposto che per l’adempimento delle sue funzioni conosceva la legge di pubblica sicurezza, il codice penale e quello di procedura penale, ma che nessuno dei suoi superiori gli aveva mai detto che egli dovesse conoscere anche la Costituzione». Poi il clima cambiò e negli ultimi decenni del secolo scorso il delitto di vilipendio sembrava diventato una fattispecie desueta.

Ma in epoca di pensiero unico si torna all’antico e la criminalizzazione della “parola contraria” è di nuovo in auge. Sta accadendo per molti temi caldi (è successo con la vicenda di Erri De Luca relativa all’opposizione al Tav in Val Susa) tra cui non poteva mancare la questione dei migranti. Mentre c’è chi invita impunemente ad affondare i barconi della speranza con il loro carico di uomini, donne e bambini (e magari anche le navi delle Organizzazioni non governative che praticano il soccorso in mare) e chi, altrettanto impunemente, sostiene la necessità – convalidata da atti di governo – di ricacciare i profughi da dove vengono (cioè di consegnarli ai loro torturatori e potenziali assassini) ad essere criminalizzate sono – nientemeno le critiche contro i tristemente famosi decreti Minniti-Orlando in tema di trattamento dei rifugiati e di sicurezza urbana.

È accaduto a Roma, in piazza del Pantheon il 20 giugno scorso. All’esito di un flash mob organizzato da Amnesty International per la giornata del rifugiato un giovane avvocato, in un breve intervento, ha vivacemente criticato quei decreti, denunciando l’abbattimento dei diritti dei migranti da essi realizzato, definendoli “allucinanti” e stigmatizzando le applicazioni subito intervenute (tra l’altro dall’amministrazione comunale romana). Sembra incredibile ma alcuni zelanti agenti di polizia, incuranti del coro «vergogna, vergogna» di un’intera piazza, hanno preteso dal giovane avvocato l’esibizione dei documenti ai fini della identificazione e di una ventilata denuncia per «vilipendio delle istituzioni costituzionali e delle forze armate», poi puntualmente intervenuta (con l’immancabile appendice della violenza e minaccia a pubblico ufficiale). Come sempre più spesso accade, la sequenza dei fatti è stata documentata in video pubblicati sul web (in particolare Youmedia.fanpage.it) dai quali non emergono né parole o espressioni men che corrette né reazioni violente o minacciose alle richieste degli agenti. Espressioni o comportamenti siffatti non sono indicati neppure nella risposta, intervenuta nei giorni scorsi a un’interrogazione del sen. Manconi, nella quale l’ineffabile viceministro dell’interno si limita a dare atto, in modo del tutto generico, che l’avvocato ha «incitato la folla pronunciando parole offensive e ingiuriose nei confronti delle istituzioni e, in particolare, della polizia di Stato».

C’è da non crederci, eppure è avvenuto. Non conosciamo, ovviamente il seguito, ma qualunque esso sia non è, come si potrebbe pensare, un episodio minore. Certo si sono, sul versante repressivo, fatti ben più gravi. Ma quando si criminalizzano anche le parole si fa una ulteriore tappa nella realizzazione del diritto penale del nemico. E non è dato sapere quando ci si fermerà.

FONTE: Livio Pepino, IL MANIFESTO



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