Senza Ius soli democrazia ferita

Senza Ius soli democrazia ferita

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Solo un ottimismo irresponsabilmente giulivo e una buona volontà tanto ilare da farsi velleitarismo, possono indurre, ancora, a ritenere che la legge sullo ius soli venga approvata in questa legislatura. Nella più favorevole delle ipotesi, l’aula del Senato potrebbe esaminare quel testo nelle prime settimane di ottobre: ma – come ha appena detto Emanuele Fiano, capogruppo del Pd in commissione Affari costituzionali – non ci sono i numeri. Il che, nella sfera politica e nel dibattito pubblico, vuol dire una cosa semplice, variamente argomentabile ma dall’esito univoco: siamo minoranza e non siamo stati capaci di ottenere un maggior numero di consensi.

Sia chiaro: oggi il tema è a dir poco incandescente. Ma, se ad appiccare il fuoco e ad attizzarlo è la destra, sarebbe finalmente ora che la sinistra si domandasse seriamente perché tutto ciò sia accaduto; e se, quindi, un atteggiamento corrivo, spesso tronfio nelle declamazioni ma inerte nei programmi e nelle politiche, non abbia favorito – o non adeguatamente contrastato – lo spostamento di una parte dell’opinione pubblica su posizioni di ostilità verso la riforma della cittadinanza.

In altre parole, è plausibile che la sinistra si sia affidata troppo alla retorica di categorie come solidarietà e fraternità: e abbia utilizzato troppo poco strumenti propri dell’economia e della demografia.

Ovvero, i soli che possono consentire una gestione intelligente dei flussi migratori, sostenuta da progetti di accoglienza capaci di garantire la convivenza pacifica tra residenti e nuovi arrivati; e un’integrazione lungimirante che sappia tutelare, allo stesso tempo, la sicurezza delle popolazioni locali più vulnerabili e quella di migranti e profughi, esuli e fuggiaschi, tutti coloro che hanno fame e sete di giustizia.

Un’impresa enorme, dall’esito tutt’altro che scontato e che comporterà fatiche e sofferenze. Ma che – ecco il punto – non ha alternative.

Questo è il vero terreno politico, ed è stato disertato da anni. Si pensi a come questa assenza della politica abbia comportato implicazioni profonde nella mentalità diffusa e nel senso comune.

Un quarto di secolo fa, la frase «non sono razzista ma» aveva tra i molti significati uno particolarmente rivelatore: registrava, cioè, l’indebolirsi del tabù del razzismo non più sottoposto, con l’acutizzarsi dei conflitti, a quell’interdizione morale e politica che rendeva il concetto di superiorità gerarchica di una razza qualcosa di sommamente riprovevole, osceno da portare in società e messo ai margini della discussione pubblica.

E, tuttavia, quelle stesse parole già introducevano delle deroghe al rifiuto assoluto del razzismo nelle società democratiche. «Non sono razzista (ho addirittura molti amici di colore), ma qui i romeni sono troppi».

Oggi, in quella frase, c’è ancora tutto questo, portato all’esasperazione e a una sorta di parossismo paranoide.

Ma c’è qualcos’altro, persino più significativo e drammatico. C’è anche un grido d’aiuto e una richiesta di soccorso: aiutatemi a non diventare razzista. Fate in modo che la mia inquietudine nei confronti di un altro – diverso e ignoto – non si traduca in intolleranza, aggressività, violenza.

È, in quello spazio tra l’ansia collettiva verso lo straniero (xenofobia) e la volontà di sopraffazione nei suoi confronti (razzismo) che avrebbe dovuto agire, sin dalla fine degli anni Ottanta, la politica. Così non è stato.

E, nell’autunno del 2017, siamo ancora alle prese con una legge sulla cittadinanza che risale al 1992. E rischiamo di dovercela trascinare ancora per i prossimi anni. E se pure fosse vero che «non ci sono i numeri», quella mobilitazione politica che non è stata attivata finora, andrebbe intrapresa con la massima urgenza e determinazione.

Il che vorrebbe dire, ad esempio, che al Senato la battaglia dovrebbe esser condotta fin da subito.

Sono convinto che queste non siano astrazioni, bensì il loro esatto contrario e c’è un piccolo esempio che è lì a dimostrarlo.

Da qualche giorno, alcuni intellettuali hanno promosso un testo indirizzato al Presidente della Repubblica e ai presidenti di Senato e Camera, nel quale si chiede l’immediata discussione della legge sullo Ius soli.

Fra loro, tre degli studiosi più schivi che il nostro Paese conosca: Ginevra Bompiani, Goffedo Fofi e Carlo Ginzburg. Persone il cui valore intellettuale è accompagnato dalla più scabra sobrietà e dal più severo stile di vita; e che hanno intrattenuto, nel tempo, un rapporto di equilibrato interesse per la politica verso la quale hanno sempre mantenuto una giusta distanza e un prudente sospetto.

Se oggi hanno deciso di esporsi su un piano che può apparire impopolare (ma già in migliaia hanno sottoscritto il loro testo) è perché credono che questo tema possa sfuggire alle dinamiche della politica politicante, pena il restarne vittima. E perché, soprattutto, hanno compreso che in gioco non c’è un obiettivo politico-programmatico tra i molti, bensì la qualità della nostra democrazia e del nostro ordinamento giuridico.

FONTE: Luigi Manconi, IL MANIFESTO



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