Africa: dal Kenya alla Liberia democrazie in bilico tra corruzione e odio tribale

by PIETRO VERONESE | 20 Novembre 2017 10:44

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LE NOTIZIE ci parlano di un’Africa alla laboriosa ricerca di se stessa, che tenta di scegliersi un futuro al tempo stesso democratico ma diverso dai sentieri battuti. E non ci riesce. Il “non golpe” dello Zimbabwe e le non-elezioni del Kenya e della Liberia descrivono strade oblique, sulle quali le nazioni si mettono in marcia per lasciarsi alle spalle un passato sgradito ma poi si smarriscono. Un po’ come nel “gattopardismo” italiano, dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, qui abbiamo grandi elefanti che accennano falsi movimenti con il solo effetto di calpestare le speranze di cambiamento del popolo come fosse erba della savana.

Se poi dalle considerazioni generali scendiamo alle singole vicende, troviamo elementi comuni ma anche dinamiche specifiche che rendono ciascuna di esse inconfondibile con le altre. Non di Africa dovremmo parlare ma di Afriche, ognuna con una precisa identità, diversissime figure di leader, contesti regionali molto distanti. Proprio questo è il caso per i tre Paesi di cui stiamo parlando, dislocati in Africa occidentale la Liberia, in quella orientale il Kenya, in quella australe lo Zimbabwe. E storie recenti e meno recenti che nulla hanno in comune: comune, semmai, è il peso di queste storie, dalle quali i Paesi in questione non riescono a liberarsi.
Liberia e Kenya hanno in comune due elezioni presidenziali finite male. In quelle liberiane il secondo turno tra i due sfidanti rimasti in lizza è stato rimandato a data indefinita a causa dei brogli e delle irregolarità riscontrate nel primo. In testa è l’ex campione di calcio George Weah, che si è invischiato in una oscena alleanza elettorale con l’ex dittatore Charles Taylor, il quale sta scontando una condanna a 50 anni in un carcere britannico per i suoi passati crimini di guerra. Weah ha scelto l’ex moglie di Taylor come vice-presidente e accetta il sostegno del marito alla propria campagna.
In Kenya invece, per analoghi motivi, le elezioni sono state ripetute, in un clima di violenza diffusa e di intimidazione. Ha rivinto il presidente uscente Uhuru Kenyatta, ma il suo rivale di sempre Raila Odinga ha preferito boicottare la ripetizione del voto, mentre i suoi sostenitori si dedicavano a saccheggi e sparatorie. La democrazia keniana si è bloccata, generando in ampi settori della popolazione disgusto per la politica e facendo ricadere il Paese nei riflessi di appartenenza tribale alle due principali etnie, di cui Kenyatta e Odinga sono i massimi esponenti.
Prendiamo lo Zimbabwe, la cui attualità è la più recente. Dalla metà della scorsa settimana i militari presidiano in forze il centro della capitale e trattengono il presidente Mugabe in una specie di arresti domiciliari soft nella sua residenza. Non è un colpo di Stato, dicono: vogliono soloneutralizzare i «criminali» e assicurare una successione nel rispetto delle norme costituzionali. Mugabe, a quanto pare, punta i piedi, ma il suo destino è segnato.
È una svolta storica: Robert Mugabe ha 93 anni, è al potere ininterrottamente da 37, e sebbene non sia né il più feroce, né il più corrotto, e sia stato almeno formalmente rieletto un’infinità di volte, è oggi il più celebre dittatore africano. Ora il suo tempo è finito. Ma a ben guardare il regime che egli ha creato gli sopravviverà, o almeno ne ha tutta l’intenzione. A succedergli è un vice-presidente di 75 anni, Emmerson Mnangagwa, che lo affianca da sempre e ha eseguito per lui tutti i lavori sporchi che ne hanno rinsaldato il potere. Un uomo che ha diretto per anni gli apparati di informazione e di sicurezza, la rete delle spie e dei delatori al servizio del regime. Ha il sostegno delle Forze armate, della polizia, del partito: cioè di quel ceto privilegiato e profittatore, relativamente al riparo dalla miseria devastante che attanaglia il resto del Paese, e che fino a due settimane fa sorreggeva Mugabe con il proprio consenso. Il patto si è rotto quando Mugabe ha voluto de-porre il suo vice preannunciando così l’ascesa finale della perfida e ambiziosa moglie Grace. Grace, la cui base di potere personale era esile, minacciava tutti: sarebbe stata costretta a purghe e arre-sti a tappeto per affermare se stessa. Ha perso ancor prima di co-minciare. Ora la caduta del marito rallegra gli animi, ma il sollie-vo sarà transitorio: per tutti quegli zimbabweani che sognano un cambiamento vero, la battaglia non fa che cominciare.
Una dittatura quasi quarantennale; una guerra civile ancora fresca nella memoria e nelle ferite; un’identità etnica più forte di quella nazionale: sono questi i pesantissimi passati – tra loro diversi ma altrettanto nemici del futuro – che rendono queste Afriche immobili.

Fonte: PIETRO VERONESE, LA REPUBBLICA[1]

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  1. LA REPUBBLICA: http://www.repubblica.it/

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