I nuovi fronti del Medio Oriente, dalla Turchia di Erdogan a Riad
Gerusalemme. Da due giorni attorno alla porta di Damasco, nella parte araba di Gerusalemme, una gru scava senza sosta a pochi metri dalle postazioni da dove i poliziotti israeliani sorvegliano l’area. La polizia nega ogni cambiamento, ma gli abitanti della zona sono certi che i lavori servano a costruire postazioni permanenti per gli uomini della sicurezza. «Siamo sotto assedio. Ogni giorno di più», dice il gestore di una bottega, che chiede di restare anonimo perché non vuole problemi.
Che abbia ragione il commerciante arabo o i portavoce israeliani, la maniera in cui i lavori sono percepiti è il segno che la crisi innescata dalla decisione americana di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico non è destinata a scomparire presto: piuttosto rischia di segnare l’ennesimo punto di non ritorno nella scala di rancori che da 60 anni domina questa parte di mondo. Per questa città e per l’intera regione.
La scelta di Donald Trump infatti è destinata a polarizzare schieramenti che da tempo andavano definendosi, ma che mai come ora appaiono chiari. Lo dimostrano le parole che Recep Tayyip Erdogan ha usato ieri nei confronti di Israele, un Paese con cui fino a una decina di anni fa aveva rapporti ottimi. «Stato terrorista », che «uccide i bambini», ha detto il presidente turco, riaffermando il massimo impegno per Gerusalemme Est capitale dello Stato palestinese.
Nella partita della città santa così come in quella dell’intero Medio Oriente, Erdogan è uno degli attori principali: il suo nome è l’unico invocato nelle piazze arabe in questi giorni. Questo perché la sua presa di posizione contro gli Stati Uniti è l’unica reputata credibile: « Erdogan, Erdogan ». E ancora «Mohammed Bin Salman schiavo dell’America», gridavano tre giorni fa i ragazzi di Betlemme che tiravano sassi contro gli israeliani. Un rovesciamento di posizioni che soltanto qualche anno fa sarebbe parso assurdo.
In questa crisi, l’Arabia Saudita dell’ambizioso principe ereditario MBS, come viene chiamato, è probabilmente quella che perde la faccia più di tutti. Nonostante le dure note di protesta inviate da Riad alla Casa Bianca, la sensazione è che Riad abbia dato precedenza alla volontà di arginare l’Iran, attorno alla quale ha cementato un’alleanza senza precedenti con gli Stati Uniti e con Israele, piuttosto che a quella di difendere i palestinesi. «Se i sauditi fossero stati particolarmente preoccupati dello status di Gerusalemme avrebbero usato il loro rapporto privilegiato con Donald Trump per spingere l’Amministrazione a bloccare tutto», scrive sul sito del mensile Atlantic Shadi Hamid del think tank Brookings Institution di Washington.
Archiviata la partita siriana da cui, seppur per motivi diversi, sono usciti sconfitti, sauditi e israeliani sembrano dunque procedere di pari passo contro i nemici dichiarati – l’Iran – e contro quelli più sfumati, come la Turchia.
A Parigi ieri Benjamin Netanyahu ha usato parole durissime in risposta a Erdogan: «Non ci facciamo dare lezioni di democrazia da chi bombarda i villaggi curdi e mette in carcere i giornalisti », ha detto. Mentre al suo fianco Emmanuel Macron ribadiva la contrarietà della Francia al riconoscimento e invitava l’ospite a «gesti coraggiosi verso i palestinesi » . Parole simili il premier israeliano ascolterà oggi a Bruxelles, dove incontrerà i vertici dell’Unione europea. Ma in questa crisi l’Europa sembra destinata a un ruolo di secondo piano, complice l’assenza di Angela Merkel, presa dai problemi interni, e le infinite fratture fra i Paesi membri.
Lo stesso accade a Egitto e Giordania, che pure del processo di pace sono stati protagonisti negli anni ’90: il vertice a tre con il presidente palestinese Mahmud Abbas e il re giordano Abdallah convocato oggi al Cairo da Abdel Fattah Al Sisi poco potrà fare se non produrre parole. E le piazze di Gerusalemme e dei Territori da tempo ormai sono stanche di ascoltare.
Gli unici attori in grado di sbloccare la situazione in Medio Oriente oggi sembrano il presidente russo Vladimir Putin, che oggi arriva per una missione nell’area, e i suoi alleati in Iran e in Libano, i miliziani sciiti di Hezbollah. Ieri sono stati loro a guidare la protesta contro l’ambasciata Usa che ha paralizzato la zona Nord di Beirut. Insieme russi, iraniani e Hezbollah hanno vinto la guerra in Siria e assicurato a Bashar al Assad la permanenza al potere. Insieme, con l’ex avversario Erdogan, che oggi incontra Putin, ormai schierato dalla loro parte, gestiranno il futuro di Damasco. Un asse che non è più solo sciita e che, in assenza di altri intermediari, è pronto a estendere la sua influenza anche sui palestinesidelusi. Ieri in Cisgiordania e a Gaza è stata la quarta consecutiva giornata di violeMedio Orientenze, con scontri e bombardamenti sulla Striscia. A Gerusalemme un agente israeliano è stato accoltellato da un palestinese ed è in gravi condizioni. Il segno di una crisi che non ha intenzione di spegnersi.
Fonte: francesca caferri, LA REPUBBLICA
Related Articles
La Ue: «Truppe contro le rivolte»
? Proteste a Sarajevo
Balcani. In Bosnia Erzegovina, sit-in e presidi pacifici davanti alle principali sedi istituzionali
L’Europa spaccata su Dublino, Grecia Malta e Cipro abbandonano Salvini
La riforma irriformabile. Il titolare del Viminale esulta per una vittoria che lascia in vigore le vecchie norme. Il Belgio: «Riprendere i respingimenti dei migranti»
Il sultano Erdogan imbavaglia i «nemici»: sindaci curdi, tv e Imamoglu
Turchia. Sale a 21 il numero di rappresentanti dell’Hdp arrestati. Pioggia di inchieste sul primo cittadino di Istanbul e multe ai media critici.