Il keynesismo militare di Donald Trump

by Enzo Modugno | 27 Dicembre 2017 11:05

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Ma gli Stati Uniti sono in buone mani? C’è motivo di ritenere che il presidente Donald Trump, nonostante la cattiva stampa, stia invece realizzando le aspettative del mondo degli affari. Le sue decisioni, deplorate perché producono tensioni, sarebbero invece funzionali al buon andamento dell’economia. Potrebbe suggerirci questa conclusione un saggio di Paul M. Sweezy del 1960, Teoria della politica estera americana, che individuava le ragioni profonde della politica estera statunitense nella tendenza permanente dell’economia capitalistica alla depressione, che può essere superata da adeguati «stimoli esterni»: ma non eliminata in quanto tendenza perché la depressione riaffiora se diminuiscono questi stimoli. Tra questi è sempre disponibile una vasta spesa pubblica, preferibilmente militare perché quella civile lede molti interessi (il keynesismo militare è poi definitivamente prevalso col neoliberismo).

La pressione degli interessi di un capitalismo sempre sull’orlo di crisi devastanti reclama la corsa al riarmo – scrive Paul M. Sweezy – e il compito principale della politica estera diventa quello di offrirne le necessarie giustificazioni.

IL PRESIDENTE TRUMP sta eseguendo meglio di alcuni suoi predecessori questo importante compito. Infatti «tener viva la tensione internazionale» significa giustificare la spesa per le armi e ogni dollaro dato al Pentagono fa aumentare il Pil di circa tre dollari entro un anno e con effetto duraturo, come hanno concordemente dimostrato molti studi (tra gli altri anche quelli di Francesco Giavazzi e di Perotti e Blanchard, Working Paper n.7269). Una prospettiva irresistibile per un capitalismo sempre a un passo dalla crisi economica, che è il vero inconfessabile nemico che rode dall’interno l’impero.

KEYNESISMO MILITARE dunque, sul quale c’è, ma sembra che si stia perdendo, un patrimonio teorico che ha avuto inizio ben prima che lord Keynes gli concedesse questo nome, da Rosa Luxemburg ad Antonio Gramsci, e che poi è continuato da Kalecki a Sweezy a Joan Robinson, fino a riparare in Vaticano.

Può essere utile perciò un breve promemoria.

BERGOGLIO E ROSA LUXEMBURG. Il papa che va al fondo dei problemi, condannando la guerra ha parlato, unico leader al mondo, dei profitti derivanti dagli armamenti «che spiegano molti conflitti, compreso quello in Siria», rinnovando l’attenzione su quell’importante aspetto del militarismo che è la sua funzione economica. La cui prima analisi appunto si deve a Rosa Luxemburg, in un saggio del 1898 e in articoli e discorsi, 1913-1915, sul militarismo tedesco.

Bergoglio infatti è un gesuita e conosce i sacri testi suoi e i sacri testi del movimento operaio. Dunque Rosa Luxemburg, in polemica con Bernstein, con preveggente chiarezza, descriveva la funzione economica del militarismo come «una forza impulsiva, propria, meccanica, destinata a rapida crescita» perché le spese militari erano indispensabili al capitalismo: costituivano un mercato addizionale per assicurare alla produzione una nuova domanda più regolare, con un ritmo di sviluppo costante. «Il militarismo quindi rappresenta il più proficuo e imprescindibile tipo di investimento, promosso dagli stessi capitalisti tramite l’apparato parlamentare e la manipolazione operata dalla stampa». Rosa Luxemburg, che fu uccisa perché militante di un partito operaio, oggi sarebbe stata accusata di «complottismo»: si trattava invece di una lucida analisi di ciò che si sarebbe chiamato keynesismo militare, «il più proficuo investimento» che ha dominato il Novecento.

GRAMSCI. Un tema ripreso da Antonio Gramsci che nel 1917 denunciava «le trame dei seminatori di panico stipendiati dall’industria bellica che dalla guerra ci guadagna». Gramsci fu vittima del fascismo, ma oggi quegli «stipendiati» avrebbero accusato anche lui di «complottismo».

DIALETTICA DEL MILITARISMO. Se, da un lato, la funzione aggressiva del militarismo – che serve al dominio su mercati, risorse e campi di investimento e al dominio di classe interno – tende rapidamente alla vittoria e all’annientamento del nemico, d’altro lato invece la funzione economica del militarismo tende a prolungare lo scontro, evoca il nemico, lo sceglie, lo provoca, lo enfatizza, lo produce se non c’è: e questo, come ha scritto Paul M. Sweezy, è uno dei compiti principali della politica estera del governo Usa. Anche Alain Joxe, lo studioso francese di studi strategici, ha scritto: «La Corea del Nord è un caso raro, quindi diventa necessario, per rilanciare l’economia con la corsa agli armamenti e la guerra, produrre continuamente zone di intervento, e gli Usa procedono in tal senso». Col presidente Trump procedono sia la Guerra al Terrore – che ha sostituito la Guerra Fredda perché «qualcuno doveva pur fare il nemico» (Henry Kissinger) – sia la tradizionale tensione con la Corea del Nord che ha raggiunto livelli mai toccati prima.

LA FUNZIONE ECONOMICA del militarismo però si presenta come militare ma è militarmente priva di senso, produce un apparato bellico abnorme che oltrepassa ogni possibile esigenza strategica.

LA FUNZIONE MILITARE invece, nonostante l’esibizione del massacro, diventa inessenziale perché ha la sua verità nell’altra, è solo mimata, non tende alla soluzione ma alla continuazione del conflitto, come le interminabili guerre asimmetriche seguite alle guerre mondiali. Sulla guerra in Iraq ha scritto John Keegan, massimo storico militare inglese: «non poteva neanche chiamarsi guerra».

È IL CAPOVOLGERSI dell’economico e del militare, dell’essenziale e dell’apparente che si rivelano come le figure ricorrenti di un oscuro processo dialettico. È necessario rovesciarlo per scoprire il nocciolo economico entro il guscio militare. Troveranno la sintesi non nella vittoria ma nella guerra infinita, nell’esibizione di morte, insomma nella gestione militare del ciclo economico.

La versione ufficiale invece scompone di continuo questa totalità complessa, ne spezza artificialmente il divenire, esibendo ossessivamente la minaccia esterna, mostrando cioè un solo momento separato, estrapolato dal procedere della società capitalistica. Sono queste le fake news che governano il mondo, indispensabili alla sopravvivenza di questo modo di produzione.

JOAN ROBINSON. Come stanno le cose infine lo ha mostrato con chiarezza sulla New Left Review, anche Joan Robinson, economista tra i maggiori del ‘900: «Le recessioni non si possono evitare se non con le spese militari, e poiché per giustificare gli armamenti si deve tenere viva la tensione internazionale, risulta che la cura è peggiore del male»

FONTE: Enzo Modugno, IL MANIFESTO[1]

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