by Eleonora Martini | 28 Dicembre 2017 9:32
Riccardo De Vito, presidente di Magistratura democratica, cosa pensa della nomina di Gilberto Caldarozzi ai vertici della Direzione nazionale antimafia?
Mi sorprende, questa “promozione” a vicedirettore operativo della Dia di Gilberto Caldarozzi, nei confronti del quale (come di altri condannati) la Cassazione ha scritto parole lapidarie sulla partecipazione e sulla copertura delle vicende illegali accadute alla Diaz. Non più di cinque mesi fa, peraltro, come Magistratura democratica, avevamo auspicato che le positive parole del Capo della Polizia sui fatti di Genova – successive all’ennesima condanna della Corte EDU per i fatti della scuola Diaz – fossero seguite da fatti concreti, a partire «dalle decisioni che verranno assunte in relazione alla possibilità che vengano reintegrati i dirigenti condannati».
Si potrebbe obiettare che, dopo aver scontato la condanna, chiunque ha il diritto di rifarsi una vita.
Togliamo subito ogni equivoco: nessuno mette in discussione il diritto di ogni condannato al reinserimento sociale, costituzionalmente garantito (art. 27, comma 3, Cost.) e all’oblio dello stigma correlato alla condanna. È altrettanto vero, tuttavia, che tale reinserimento debba passare attraverso una esplicita scelta di condivisione e di consapevolezza dei valori e dei diritti violati. Non sembra che tali parole siano arrivate dai dirigenti di Polizia coinvolti nel caso Diaz. Occorre sempre dare ai fatti la facoltà di smentirci, ma la scelta di promozione che oggi commentiamo appare inconciliabile con quella idea di «costruzione di una memoria condivisa» sui fatti della Diaz e più in genere sul reato di tortura di cui questo Paese ha necessariamente bisogno, come ha scritto lo stesso Capo della Polizia, Franco Gabrielli.
Un reato che solo nel luglio scorso è stato introdotto nel nostro ordinamento penale, ma che si distanzia molto dalla fattispecie descritta nelle Convenzioni internazionali ratificate anche dall’Italia…
Motivo ulteriore per evitare nomine di questo genere. Anche al fine di non rendere più evidenti le lacune della legge introduttiva del reato di tortura (l. 110/2017), che rimane silente su ogni meccanismo procedurale che possa incentivare la denuncia di fatti come quelli accaduti a Genova, e di non rafforzare quel clima di complicità e omertà che è un ostacolo alla prevenzione, ancora prima che alla repressione del reato in questione. Vicende come quella che oggi ci troviamo a commentare rischiano poi di costruire un immaginario simbolico pubblico devastante sul piano del riconoscimento della vera gravità del reato di tortura, retrocedendolo ancora una volta quasi a “male necessario”.
Si aspetta che il governo reagisca alle proteste che da più parti si stanno sollevando?
Ci vorranno chiarimenti, senza dubbio.
FONTE: Eleonora Martini, IL MANIFESTO[1]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2017/12/96076/
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