by Marina Calculli | 3 Gennaio 2018 10:48
Dall’onda verde a oggi. La matrice delle rivolte che hanno marcato il passaggio dal 2017 al 2018 sembra, per il momento, ben differente dal 2009: la polifonia delle voci di piazza, l’assenza di una forza genuinamente contro-egemonica in grado di immaginare, prima ancora che perseguire, il cambiamento, ricorda piuttosto i momenti spontanei del 2011 nel mondo arabo, almeno per quel che possiamo constatare da un osservatorio lontano e nel tempo limitato di questo abbrivio di rivolta. La debolezza di quell’afflato rivoluzionario, come ha scritto lo studioso marxista Asef Bayat, è da ricercare non soltanto nella forza della repressione ma piuttosto nell’assenza di una vera “idea”
Entrate nel loro quinto giorno, le proteste iraniane restano un fenomeno imperscrutabile, quantomeno per la varietà di slogan e domande che le piazze in subbuglio hanno confezionato, mescolando la frustrazione di una classe lavoratrice tradita alla nostalgia confusa e grottesca per lo Shah, rovesciato nel 1979 dalla rivoluzione che portò a instaurare la repubblica islamica.
Con 20 manifestanti uccisi molto probabilmente dalla polizia, nonostante i toni conciliativi di Rohani, il regime ha di fatto già mostrato quanto lo slancio verso un cambiamento reclamato dalla storia (e più volte interpretato e assecondato dalla stessa élite del regime) sia ancor più spesso trattenuto dallo sguardo corto della sua anima più autocratica e cinica.
La reazione dell’establishment è certo ben diversa da quella che Ahmadinejad orchestrò durante la cosiddetta “onda verde” del 2009. Ma di fronte ai martiri di questa sollevazione popolare, l’evocazione di “agenti stranieri” mescolati alle piazze per seminare panico e sedizione risuona francamente come il solito disco rotto dei poteri insicuri e isterici.
Questo, tuttavia, non vuol dire che e attori politici – all’interno e soprattutto all’esterno del paese – non siano già protesi verso un’operazione di sciacallaggio politico e strategico, capitalizzando sull’esposizione negativa che le proteste stanno dando al governo di Rohani ma soprattutto sul carattere destrutturato e confuso di queste rivolte per destabilizzare l’Iran secondo le proprie agende internazionali.
Tanto per intenderci: la società iraniana, fin dal 1979, è pregna di una assai radicata opposizione politica al regime e all’uso strumentale di un conservatorismo religioso per limitare l’espressione della società, a partire dai ‘corpi’ dei propri cittadini.
Fu questo, per esempio, il caso dell’onda verde del 2009. Allora, un vero e proprio movimento per i diritti civili si strutturò attorno a Mir-Hossein Mousavi e Mehdi Karrubi, due figure politiche d’opposizione al governo di Ahmadinehjad ma pur sempre due membri dell’élite, chiedendo “dov’è il mio voto?” e denunciando i brogli elettorali concertati dall’establishment dell’allora presidente conservatore. Si trattava di un movimento ben strutturato, in continuità con l’attivismo degli anni ‘90, con un’agenda politica precisa che non mirava a rovesciare il sistema ma piuttosto a trasformarlo dal di dentro, percorrendo ogni possibilità offerta dal pluralismo iraniano.
Il sistema politico della Repubblica Islamica permette, infatti, un genuino confronto democratico, seppur soggetto alle limitazioni evidenti di un clero oppressivo e autoritario. Non a caso, nonostante la durissima repressione del 2009, le istanze della piazza penetrarono nelle stanze del potere, innescarono un processo di (ulteriore) cambiamento che portò alla progressiva marginalizzazione di Ahmadinejhad e del suo circolo conservatore, fino all’elezione del riformista Rohani. L’apertura politica del presidente in carica ha segnato solo l’ultimo tassello di un processo trasformativo lento ma che, con alti e bassi, è cominciato all’indomani stesso della rivoluzione del 1979.
La matrice delle rivolte che hanno invece marcato il passaggio dal 2017 al 2018 sembra, per il momento, ben differente da quella del 2009: la polifonia della piazza, l’assenza di una forza genuinamente contro-egemonica in grado di immaginare, prima ancora che perseguire, il cambiamento, ricorda piuttosto i momenti spontanei del 2011 nel mondo arabo, almeno per quel che possiamo constatare da un osservatorio lontano e limitato nel tempo di questo abbrivio di rivolta.
La debolezza di quell’afflato rivoluzionario, come ha scritto lo studioso marxista Asef Bayat, è da ricercare non soltanto nella forza della repressione ma piuttosto nell’assenza di una vera “idea rivoluzionaria”
E’ proprio per questo che la restaurazione del nocciolo duro dei regimi e il trionfo delle forze islamiste (non protagoniste delle prime fasi delle rivolte) hanno prevalso nella resa dei conti tra il potere e le società nel mondo arabo.
Il sospetto è che una dinamica simile si stia riproducendo in Iran oggi: in parte fomentata dai conservatori ostili a Rohani (e forse già sfuggite di mano anche a loro), in parte frutto del disappunto popolare delle classi lavoratrici per la politica economica del governo – impregnata di slanci neoliberisti e ultimamente focalizzata sui pesanti tagli ai sussidi, con l’inflazione in crescita e l’occupazione in calo – e in parte venata di rigurgiti “retrotopici”, che guardano ad una mai esistita “età dell’oro” proiettata nel passato (come il governo autoritario e corrotto dello Shah) per assenza di creatività programmatica rivolta al futuro.
Il grande assente di queste piazze iraniane, finora più ristrette numericamente rispetto al 2009, è insomma l’ideologia, che a sua volta definisce la struttura dei movimenti: un vacuum entro cui facilmente potrebbero sguazzare attori indesiderati a gran parte della società.
Non a caso, le rivolte propagatesi persino nelle città iper-conservatrici di Mashhad e Qom, non hanno avuto molta eco nella capitale, Teheran, dove il sentore è che buona parte della piccola e media borghesia ostile al regime tema decorsi imprevedibili e orchestrati da attori poco interessati al cambiamento democratico più in retorica che in prassi.
Occorre ricordare che il “grande popolo iraniano” cui Donald Trump ha concesso l’euforico endorsement di un tweet è lo stesso stigmatizzato dal travel ban promosso dalla sua amministrazione. Inoltre, mentre i cori in favore della “transizione democratica” si sprecano sui media occidentali, è forse il caso di ricordare che un Iran reintegrato nella comunità internazionale facilmente conquisterebbe la leadership regionale: esattamente quello che la nuova Casa Bianca ha voluto scongiurare, boicottando il nuclear deal di Obama e rallentando il processo di sblocco delle sanzioni, provocando un arresto della crescita economica attesa all’interno del paese.
La cautela epistemologica è insomma di dovere non certo per (s)cadere nell’elitismo intellettualista che tende a denigrare e orientalizzare qualsiasi protesta in Medio Oriente abbia gli onori della cronaca in occidente, accanto alle molte altre proteste ignorate o vilipese, soprattutto quando rivolte contro regimi amici.
Ma il rischio è che il coro mediatico pressoché unanime nel suo appiattimento sul pregiudizio anti-Iran e recidivamente restio ad apprezzare la complessità tanto della società quanto del sistema politico di questo paese, finisca per materializzare – in questa post-modernità in cui le cose ‘accadono’ prima di tutto nella dimensione virtuale della comunicazione – il wishful thinking dei circoli conservatori di Washington, Tel Aviv e Riad, piuttosto che il volere della società iraniana verso cui millanta vicinanza emotiva.
FONTE: Marina Calculli, IL MANIFESTO[1]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2018/01/96181/
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