Lo scontro tra Bannon e Trump: la Casa Bianca peggio del trono di spade

Lo scontro tra Bannon e Trump: la Casa Bianca peggio del trono di spade

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Steve Bannon era considerato lo Svengali della cerchia ristretta di Trump, l’anima nera che seduce e manipola e che, operando dietro le quinte, domina la scena.

Con amici e seguaci, definiva il suo pensiero «rivoluzionario». Un «leninista», diceva di sé.

Il palazzo d’inverno da conquistare era il vecchio establishment repubblicano, un edificio politico marcio e non dissimile in fondo da quello degli odiati democratici, uniti, infatti, dallo stesso proposito, quello di conservare lo status quo e dentro lo status quo il loro dominio, una condizione, secondo Bannon, che avrebbe condotto l’America al suo disfacimento.

Trump, un discutibilissimo uomo d’affari refrattario all’ideologia e alla politica, si fidava di Bannon, non solo perché con lui aveva un’ottima chimica personale, ma perché lo riteneva una sorta di tecnico a cui affidarsi, lui digiuno di idee e di manovre e tutto istinto e viscere, che avrebbe riempito la scena e interagito emotivamente con il suo elettorato.

Una riuscita divisione dei ruoli, un buon tandem, indubbiamente, adatto a creare il clima avvelenato che oggi regna in America e che rende irrespirabile l’aria per molti americani ma considerato salubre e radioso dalla base oltranzista che continua a credere in Trump e alla sua promessa di riscatto, lui il miliardario che fa il paladino dei bianchi umiliati e offesi.

Sorprende la clamorosa rottura annunciata con incontenibile ira dallo stesso Donald?

Certo, fa notizia, e mercoledì e ieri sovrastava tutte le altre nella gerarchia dei motori di ricerca.

Ma è clamorosa, a ben vedere, per ragioni meno evidenti di quelle, pur sostanziose, offerte dalle anticipazioni bomba di Michael Wolff, «Fire and fury», sulla corte trumpista e sulle relazioni pericolose con il Cremlino. La rottura è molto più che un divorzio.

Il vecchio wallstreeter s’affida ora agli avvocati e lancia pesanti minacce all’uomo che fino pochi giorni fa lo teneva in pugno e che è stato partner di una relazione, qualunque sia la verità del loro rapporto – quasi inesistente, sostiene ora Trump -, che oggi fornisce una quantità enorme di materiale esplosivo a Steve Bannon.

C’è un retroscena ancora più serio delle rivelazioni più eclatanti e che giustifica l’affondo di Trump all’ex-sodale («è fuori di testa»). E ha a che fare con le ambizioni smisurate di Bannon. Il quale, nei suoi disegni, non vedeva se stesso solo come l’ideologo del suo progetto rivoluzionario che aveva in Trump il protagonista. Nella parte del presidente vedeva se stesso. Bannon ambiva a prendere il posto di Trump a fine mandato, dopo avere creato le condizioni di una successione sostenuta dalla base elettorale della vittoria del novembre 2016.

Nelle pieghe delle notizie della rottura emerge infatti il dettaglio, che dettaglio non è, della scomunica secca di Bannon da parte di Rebekah Mercer, l’erede e leader della potente dinastia di finanziatori dell’estrema destra repubblicana (32 milioni di dollari nel 2016), determinante nella fase finale, quella decisiva, della corsa di Trump, quando tutti gli altri donor e grandi elettori disinvestivano dalla sua campagna, politicamente ed economicamente.

I Mercer sono figure chiave per comprendere il combinato Trump-Bannon, essendo anche i finanziatori di Bannon stesso, non solo nelle sue vesti di editore di Breitbart News ma anche di capo politico e organizzatore del «partito del presidente», la forza che, nella sua idea, avrebbe dovuto incarnare e portare avanti la rivoluzione conservatrice e la conseguente rottamazione della vecchia macchina di potere repubblicana.

Trump ne doveva essere il leader ma in prospettiva doveva essere, appunto, lo stesso Bannon a scendere in campo per occupare lo studio ovale.

Ma proprio le ambizioni di Bannon hanno messo in allarme i Mercer, specie dopo la sconfitta repubblicana nelle recenti elezioni in Alabama. Mentre faceva campagna in Alabama per Roy Moore, sconfitto poi da Doug Jones, Bannon si vantava di poter contare sul sostegno finanziario dei Mercer per costruire il palcoscenico politico per «when I am president», quando sarò presidente.

A rendere ancor più plateale la rottura con Mercer, proprio sul terreno delle ambizioni spropositate di Bannon, è quanto detto Trump a proposito del sostegno elettorale che Bannon rivendica come suo: «Steve non rappresenta la mia base, ma solo se stesso».

Il bruciante scacco subito in Alabama non solo ha rivelato questo retroscena, ma ha reso evidente il rischio enorme rappresentato da Bannon come stratega delle operazioni presidenziali in vista delle elezioni di medio termine, il prossimo novembre.

La vecchia guardia repubblicana è in estasi di fronte all’incendio nella Casa Bianca e si sente di nuovo indispensabile per un presidente che in realtà ha dovuto subire e con il quale non è mai riuscita a trovare l’intesa che normalmente c’è tra il capo dell’esecutivo e il partito di maggioranza al congresso. Ma non è facile immaginare come un personaggio totalmente eccentrico possa adesso intraprendere un percorso di sia pur relativa normalità. Senza la spalla di Bannon, Trump rischia di non essere più Trump.

Per diventare che cosa?

Bannon potrà pure essere considerato un megalomane, con le sue ambizioni presidenziali, ma è un pezzo consistente di questa presidenza, probabilmente insostituibile (Trump ha continuato a consultarlo continuamente, anche se adesso lo nega, pure dopo il suo allontanamento dalla Casa bianca, e Bannon ha detto, tranquillo, che dopo questa sfuriata Trump riprenderà a telefonargli).

Ormai in mano ai tre generali che lo circondano (il capo dello staff, il consigliere per la sicurezza nazionale e il capo del Pentagono), Trump sarà ancor di più loro ostaggio. La sua indomabile irrequietezza e la sensazione che si stia sempre più stringendo intorno a lui il cerchio di Mueller potrebbero provocare in un personaggio così altamente imprevedibile e bizzarro, comportamenti stralunati e strabilianti.

L’establishment repubblicano potrebbe svegliarsi un giorno, forse presto, con un Trump, considerato finalmente sotto controllo, in realtà ormai definitivamente «out of his mind», fuori di testa.

FONTE: Guido Moltedo, IL MANIFESTO



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