Tunisia, sette anni dopo la protesta è sempre per la giustizia sociale

«La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati». Alcuni intellettuali tunisini fanno ricorso alle parole di Antonio Gramsci per spiegare la fase che sta attraversando la Tunisia.
A sette anni dalla Rivoluzione dei Gelsomini con la destituzione del dittatore Ben Ali, i nodi della transizione alla democrazia sono duri da sciogliere.
Ma la rivoluzione continua, lo si vede nelle piazze e lo si rivedrà il 14 gennaio con le manifestazioni indette da partiti, associazioni e dall’Unione generale dei lavoratori tunisini.
La rivolta di questi giorni in varie città della Tunisa, contro la Legge finanziaria 2018 – che impone l’aumento della Tva (Iva) e dei prezzi dei beni di prima necessità – è l’espressione del forte malessere sociale e di una crisi economica profonda alle quali un governo debole e incompetente non ha saputo porre rimedio.
Ma è anche il segno che i tunisini, soprattutto i giovani, vogliono continuare a battersi. Non è vero che la rivoluzione è fallita, ma se certamente il vecchio sta morendo il nuovo fa fatica a nascere: la dittatura è caduta ma la democrazia è un percorso a ostacoli.
Non si può parlare di democrazia senza giustizia sociale: il bilancio economico è catastrofico, l’inflazione galoppante, i salari sono troppo bassi, la disoccupazione supera il 16% (il 30% per i giovani laureati), il fossato che divide la Tunisia dell’interno da quella del litorale – tra le ragioni della rivolta del 2011 – resta profondo, gli abitanti delle periferie sono emarginati.
La Tunisia è diventata un paradiso fiscale – anche per molti italiani -, gran parte dell’economia è gestista dal settore informale al quale vanno anche parte delle entrate del turismo, in ripresa nel 2017 ma con molte disdette negli ultimi giorni per le proteste.
Soprattutto, a beneficiare del rovesciamento del vecchio regime sono stati gruppi di affaristi e mafiosi.
Il premier Youssef Chahed aveva ottenuto grande sostegno dalla popolazione quando nel maggio del 2017 aveva lanciato l’operazione «mani punite» contro la corruzione: sembrava che volesse porre fine al controllo d’ingenti risorse economiche da parte dei cosiddetti «uomini d’affari» spesso implicati nel contrabbando, ma evidentemente non ha potuto o voluto portare a termine l’impegno.
Proprio ieri in un incontro tra il presidente della repubblica Beji Caid Essebsi e il premier Youssef Chahed per valutare la situazione è stata annunciata l’intenzione di rafforzare le misure contro la corruzione, oltre a quella di migliorare il potere d’acquisto per le fasce più deboli e controllare i circuiti di distribuzione dei beni, spesso fuori controllo. Forse i governanti si sono accorti che la repressione non potrà sedare la rivolta se non si affrontano i nodi reali del paese.
Ma la situazione potrebbe peggiorare.
Le proteste di Fech Nestanew? (Che cosa aspettiamo?), un movimento spontaneo all’interno del quale sono impegnati anche i militanti del Fronte popolare e che ha manifestato anche ieri nel centro di Tunisi, sono pacifiche, nonostante le accuse del governo.
Più difficile è capire chi c’è dietro i saccheggi e i vandalismi che avvengono di notte, senza slogan, sigle e rivendicazioni.
Sono stati arrestati alcuni militanti islamisti, un jihadista ricercato, mentre a Sidi Bouzid, la città dove era scoppiata la rivolta nel 2011, è stato individuato un uomo che distribuiva soldi ai manifestanti.
Non c’è da meravigliarsi: gli interessi a far degenerare o a cavalcare le proteste sono molti e lo si è già visto nelle rivolte arabe del 2011.
La Tunisia è alla vigilia delle elezioni amministrative che, dopo rinvii, si terranno il 6 maggio. E dopo i nefasti effetti dell’accordo tra il presidente laico Essebsi e il leader islamista Ghannouchi, entrambi cercheranno un’affermazione per i rispettivi partiti nelle municipali.
Inoltre, soprattutto, la Tunisia si trova in una posizione geografica estremamente delicata: dopo le sconfitte subite da Daech in Iraq e Siria, la Libia è diventata rifugio di molti jihadisti in fuga, che sconfinano nei paesi vicini. Questi «mostri» rischiano di far arretrare il paese anche sulle conquiste ottenute sul piano dei diritti – in particolare per le donne – e delle libertà.
Per «difendere il paese, la costituzione e le libertà» è stato lanciato un appello da migliaia d’intellettuali e personalità di vari settori. Una sorta di «terza via» per tentare dal basso quell’esperimento che il Quartetto, che ha vinto il premio Nobel, aveva realizzato con i partiti politici.
FONTE: Giuliana Sgrena, IL MANIFESTO
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