Intervista a Udo Enwereuzor. Formare contro il razzismo e contro l’odio

Intervista a Udo Enwereuzor. Formare contro il razzismo e contro l’odio

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Cresce l’odio razziale sui social, ma cresce anche la consapevolezza nei tanti che sono disposti a lottare per i diritti di tutti. Cresce la consapevolezza che un problema di razzismo e xenofobia esiste in Italia e che va affrontato in tutte le sedi, con tutti gli approcci e i linguaggi possibili. È una pluralità necessaria, se si vuole incidere sul fenomeno. Ci vuole la legge e ci vuole l’educazione, dice Udo Enwereuzor, molti anni di esperienza al COSPE (ONG attiva dal 1983 nella cooperazione internazionale in 30 Paesi del mondo) e un occhio attento all’Europa, oggi responsabile dell’ufficio Migrazioni, diritti di cittadinanza, società plurali.

 

Redazione Diritti Globali: Il COSPE è una delle maggiori ONG italiane, vi occupate di cooperazione internazionale in tutto il mondo. Quando è successo, e perché, che avete deciso di dedicare attenzione a iniziative al tema del razzismo e dello hate speech in Italia?

Udo Enwereuzor: È dagli anni Ottanta che il COSPE lavora nella lotta al razzismo, abbiamo cominciato privilegiando soprattutto la formazione di diverse figure professionali, dai medici agli agenti di polizia agli operatori sociali, ispirandoci al modello inglese e adattandolo alla realtà italiana. C’è stato un episodio, nell’87, che ha dato una spinta in questa direzione: la presenza dei primi venditori ambulanti stranieri, a Firenze, e un momento di particolare tensione quando un gruppo di turisti giapponesi è intervenuto in difesa di un ambulante circondato da agenti della polizia municipale che gli stavano sequestrando la merce. E allora ci siamo detti: la polizia locale ha bisogno di formazione su come fare il proprio servizio in una società multiculturale. Il COSPE decise allora per una formazione dei formatori, mise insieme un gruppo di psicologi, pedagogisti, ricercatori universitari e insegnanti che sarebbero diventati “formatori all’antirazzismo”. A questo è legata anche la mia storia, io studiavo allora all’Università di Firenze e proprio attraverso questo gruppo sono entrato in contatto con il COSPE. Da qui siamo andati avanti, abbiamo cominciato ad analizzare le politiche pubbliche, ad andare in alcuni quartieri della città. A Bologna abbiamo realizzato il progetto “Tutti nella stessa Barca”, che coinvolgeva le scuole del quartiere Barca. Abbiamo lavorato così sull’antirazzismo per tutti gli anni Novanta, fino ad arrivare a organizzare la formazione per la polizia di Stato e per quelle Municipali. Avevamo, poi, uno sguardo particolare che veniva dalla nostra attività di cooperazione internazionale, che ci ha portato a ragionare su quali erano le rappresentazioni del Sud del mondo che i media italiani veicolavano, ed è così che ci siamo avvicinati alla tematica della comunicazione. I due filoni di lavoro, antirazzismo e attenzione ai media, si sono incrociati: continuavamo a verificare come vi fosse una rappresentazione pregiudiziale negativa dei cittadini del Sud del mondo, e anche grazie a esperienze europee, che su questo già intervenivano, abbiamo cominciato anche noi a porre attenzione all’analisi dei testi in un’ottica antirazzista, dai testi giornalistici a quelli in ambito accademico. Man mano che il pregiudizio razzista diventava un “discorso pubblico”, non solo nei media, ma nei bar e nelle famiglie, abbiamo intensificato il nostro lavoro, soprattutto occupandoci dei discorsi di incitamento alla discriminazione.

 

RDG: Non si parlava, allora, di discorsi d’odio…

Alla definizione di hate speech si è arrivati negli anni 2000, è un concetto che veniva dagli USA e dal Regno Unito, ma quel nostro lavoro sull’incitamento era già molto vicino a quest’accezione. Dal 2001 fino a tutto il 2014 siamo diventati il referente italiano dell’Osservatorio europeo sul razzismo e la xenofobia, oggi si chiama FRA, Agenzia per i diritti fondamentali; il nostro lavoro è stato proprio quello di monitorare e relazionare su razzismo e xenofobia nel nostro Paese. Allora non c’era così tanta attenzione allo hate speech, diciamo che negli ultimi sei o sette anni si è posta con forza ed è cresciuta l’attenzione della società civile.

 

RDG: Sullo hate speech, secondo te, c’è più attenzione perché in effetti siamo in una società che è più razzista di quanto non fosse nei decenni passati, oppure siamo noi a essere più sensibili, e ad aver imparato a “vedere” e “ascoltare” il discorso razzista?

UE: Non è facile rispondere, non disponiamo di dati, di una serie storica per poter dire se anni fa il fenomeno fosse minore, quello che è certo è che cambiata la cultura e la sensibilità. Quando negli anni Novanta andavamo in giro a parlare di formazione antirazzista ci guardavano come dei marziani, ci liquidavano dicendo che c’erano poche mele marce in un corpo sociale sano, oppure si parlava di “ragazzate”, c’era un non riconoscimento del problema; anche in buona fede, semplicemente non lo si vedeva. Quello che è cambiato è che è cresciuta la consapevolezza che un problema c’era e c’è, fino alla presa d’atto anche da parte delle istituzioni; se ne occupa l’accademia, per esempio, o le forze dell’ordine: gli sgomberi dei campi rom, c’è qualcosa che non funziona? Qualcuno se le pone, queste domande, oggi. Certo, però, che c’è un altro elemento fondamentale, è cresciuta a dismisura la possibilità della circolazione dei discorsi d’odio nell’opinione pubblica, con i social media e il web. Un conto era prendere carta e panna e scrivere una lettera di insulti, e inviarla ai giornali, senza contare l’elevata probabilità di una censura; un conto è oggi, su Internet chiunque scrive e vomita il suo odio pubblicamente a commento di un articolo dello stesso giornale. In questo senso, sì che c’è stato un accrescimento, ma non abbiamo dati che ci facciano dire che l’odio, prima, era minore o maggiore. Credo che l’insulto alle persone LGBT, o ai rom o agli africani ci sia sempre stato, però vi partecipava meno gente e tutto era meno visibile.

 

RDG: Il fenomeno è visibile, però trovare dati seri, un vero monitoraggio è ancora difficile. È una questione di mancata volontà politica, oppure è realmente un’impresa troppo complessa?

UE: Il monitoraggio delle discriminazioni è maggiormente organizzato in alcuni settori della vita pubblica e sociale, il lavoro, la casa, l’accesso ai servizi o alle risorse culturali, ma per quanto riguarda lo hate speech questo è molto più complicato, sia per l’enorme quantità di messaggi che per l’illimitata possibilità di riprodurli e farli circolare. Tutta un’altra cosa rispetto a quando si aveva a che fare con qualche titolo di giornali schierato. Ricordo che negli anni Ottanta ho lavorato a un’analisi delle pagine della rivista di destra “Il Borghese”, e ricordo delle copertine della rivista squisitamente razziste, quei titoli saremo in cento a ricordarceli in Italia, e la rivista sarà stata tenuta in alcune copie in qualche archivio… Se quello fosse stato un giornale online sarebbe stato letto da milioni di persone, non solo in Italia ma da chiunque legga in italiano. Questa pervasività del discorso d’odio rende anche difficile monitorarlo. Penso piuttosto che si debbano seguire alcuni ambiti specifici della vita pubblica. Per esempio il bullismo di oggi, che è diventato cyber bullismo, tra i giovani va non tanto misurato o contato, ma vanno capite le dinamiche, per poterlo controllare. Tutto questo è reso più complesso dal bilanciamento tra due diritti, quello alla libertà di espressione e quello alla dignità della persona: se la Costituzione è chiara, su questo, il primo diritto si ferma dove comincia il secondo, per i giovani questo va reso comprensibile, è un lavoro educativo, dire loro che anche quando non vi sia violenza fisica, lo hate speech fa male, lede la dignità personale, umilia.

 

RDG: A questo proposito, si stanno moltiplicando le iniziative e gli accordi basati sull’autoregolamentazione dei social network. C’è stato anche un recente accordo a livello comunitario con i grandi social. Hai fiducia in questa modalità di controllo? È una buona risposta?

UE: Io sono convinto che su questo terreno noi dobbiamo usare tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione. Ci vuole la legge e ci vuole l’educazione. Quanto a quei soggetti che detengono il controllo dei media, c’è tutto il limite di lasciare loro la facoltà di stabilire le proprie sanzioni, e credo che l’autoregolamentazione spesso non riesca ad andare oltre a un semplice richiamo; se guardiamo anche al giornalismo tradizionale, l’Ordine dei giornalisti ha la capacità di individuare il problema e anche i responsabili, ma non è dissuasivo, prima di espellere qualcuno dall’Ordine ce ne vuole… Anche chi è stato sanzionato continua a scrivere. Sui grandi gestori delle reti, la Commissione Jo Cox, di cui ho fatto parte, ha condotto numerose audizioni con loro, e quello che ne ho dedotto è che lì serve la legge, perché il nodo non è tanto il messaggio del singolo, ma tutto il sistema e il suo funzionamento, di cui loro sono responsabili. Dire che Google è il tutore delle nostre libertà invece dello Stato, per quanto imperfetto sia, francamente non mi persuade. Google ha il suo obiettivo: il profitto; l’autoregolamentazione può servire, ma non al posto della legge.

 

RDG: Ma le nostre leggi sono adeguate? Il quadro normativo è aggiornato, rispetto a questo fenomeno?

UE: Le nostre leggi non sono adeguate. Pensiamo, per esempio, che le norme attualmente in vigore tutelano dall’incitazione all’odio razziale ma non tutelano altri gruppi, per esempio le persone LGBT, e ci troviamo allora di fronte a un trattamento non paritario di fronte allo stesso reato. La legge vigente, poi, che ha riformato la legge Reale, ai tempi fu modificata dall’allora ministro Roberto Castelli, che portò a tre anni la pena per reati di istigazione all’odio razziale, aprendo alla possibilità di comminare pene pecuniarie. Come dire, chi può permetterselo può continuare nella sua condotta… La modifica della legge che giace in Senato, nella sua formulazione originaria sostenuta in modo particolare dalla comunità LGBTI, è diventata un mostro giuridico, perché appellandosi alla libertà di opinione di fatto esclude la punibilità di associazioni e politici, mantenendo quella contro i singoli cittadini. A questo punto, un testo così concepito è meglio che decada! Credo che vada invece pensato un testo di legge che prenda di punta la questione dello hate speech, per tutti i gruppi, a prescindere dalla legge Mancino. Ci sono alcune proposte di legge, ma non sono mai entrate nell’agenda politica e non sono all’ordine del giorno.

 

RDG: L’Europa – la Commissione, il Consiglio – hanno emanato numerose Raccomandazioni e Dichiarazioni che danno un indirizzo chiaro nella lotta all’odio. L’Italia le ha recepite?

UE: Sul piano delle raccomandazioni e direttive europee, sì, direi che l’Italia le ha recepite, dopo un periodo difficile durante i governi Berlusconi, quando – discutendo della Dichiarazione quadro europea del 2008 contro il razzismo – addirittura in un dibattito al Senato un senatore leghista rivendicò il diritto dei popoli alla xenofobia! Ma quel periodo è stato superato, per fortuna.

 

RDG: Pensando ai gruppi più colpiti dai discorsi d’odio, pensi che l’Italia sia in linea con quanto accade in Europa o ci sono delle specificità, nel nostro contesto nazionale?

UE: Le ricerche comparative provenienti dal Consiglio d’Europa e dalla FRA non ci forniscono una misurazione in termini “più o meno” del livello di razzismo e di odio nei diversi Paesi, però illuminano su alcune caratteristiche. Nel nord Europa, per esempio, c’è una maggiore incidenza dell’odio propalato da gruppi organizzati, della destra e xenofobi, mentre da noi direi che il discorso d’odio è più “popolare”, diffuso. Il caso di quella signora di Ascoli Piceno che pubblicò post di odio contro Laura Boldrini, salvo poi scusarsi, è emblematico, lei è una persona cosiddetta “normale”, che poi non riusciva nemmeno a dare ragione del suo gesto. “La Repubblica” sta facendo un lavoro per identificare alcune di queste persone, e trova un avvocato che manda cose tra le più truci…, e nemmeno lui, messo alle strette in un rapporto vis a vis, sa motivare le cose che dice.

 

RDG: Questo aspetto di cui parli però, questa “diffusione popolare”, spontanea, disegna una sfida anche più difficile, qui in Italia…

UE: Purtroppo sì, è una sfida immane. E dobbiamo imparare dall’Europa. La Germania, per esempio, è molto più decisa di noi verso i social network; commina multe molto elevate, li perseguono ottenendo migliori risultati nelle rimozioni dei messaggi d’odio. Da noi, Google ci fa lezione sulle nostre libertà, mi sembra paradossale.

 

RDG: Parlando di razzismo, quali sono oggi i gruppi più bersagliati in Italia?

UE: In cima e non da ora, da decenni ci sono i rom, che non si schiodano dalla prima posizione… Altri gruppi hanno cambiato la loro posizione, nel tempo, per esempio gli albanesi in altri anni erano un bersaglio, oggi non lo sono più, mentre i rom non si sono mossi nel tempo dall’essere il bersaglio privilegiato. È antica anche la xenofobia verso gli africani, in particolari i subsahariani, e si parla sempre di più di afrofobia. L’islamofobia sta crescendo, è un termine che fino al 2001 era confinato tra pochi esperti, oggi è un fenomeno ampio, sia perché gli islamici sono più presenti e visibili nelle nostre città, sia per gli stereotipi che li vogliono associati sempre e comunque agli atti terroristici in Europa. Il razzismo e la xenofobia si sono legati poi all’afflusso di rifugiati e richiedenti asilo, sebbene contro questi vi siano forme anche diverse dal razzismo tradizionale, ma le due cose sono legate, certamente. C’è poi il razzismo storico, mai tramontato, verso gli ebrei, e contro di loro si esprimono realtà più organizzate, dunque c’è meno quel fenomeno del razzismo diffuso e popolare che c’è invece per altri gruppi.

 

RDG: Hai delineato una realtà complessa e difficile. Ma, in chiusura, ti viene in mente una prospettiva ottimistica che vedi all’orizzonte?

UE: Certo, che c’è una prospettiva ottimistica. Nella nostra storia, dai primi corsi di formazione all’antirazzismo, abbiamo dovuto abbandonare questo termine, il terreno non era pronto, non si riconosceva l’esistenza del problema; anche nei movimenti più progressisti e di sinistra, negli anni Ottanta e Novanta si focalizzava il problema di classe, molto meno o per niente il fenomeno del razzismo. Abbiamo dovuto proporre i nostri corsi, allora, con il nome di “formazione alla multiculturalità”, pur mantenendo fermi i contenuti di antirazzismo. Quello che mi ha dato forza in questi anni è il numero delle persone che si impegnano per i diritti di tutti, che prendono parola pubblicamente. Questo mi dà speranza, anche perché vuol dire che è cresciuto il controllo sociale sui comportamenti d’odio: oggi vediamo situazioni un tempo impensabili, come passeggeri di treni o autobus che intervengono a difesa di un migrante ingiustamente aggredito, e questo è importante, perché uno dei grandi problemi del razzismo è che ti fa sentire davvero solo. Oggi ci sono più persone che vedono, che sentono e che reagiscono. Purtroppo c’è quella minoranza vociante, una vocal minority, la chiamo, che dà l’impressione di essere più numerosa di quel che è, parlano molto ma non sono molti, rischiamo di sovrastimarli.

 

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Udo Enwereuzor: responsabile tematico dell’associazione COSPE su Migrazioni, Minoranze e Diritti di cittadinanza e rappresentante italiano del Migration & Development Task Force di CONCORD Europe. Dal 1998 al 2001 è stato membro della Commissione nazionale per le Politiche di Integrazione degli immigrati presso il Dipartimento Affari Sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri e coordinatore per l’Italia della Rete Europea contro il Razzismo (ENAR). Svolge un’intensa attività di ricerca, formazione e consulenza sui temi della promozione dei diritti e delle politiche di integrazione degli immigrati in Italia.

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Qui un articolo sul Rapporto, da pag. 13 di Sinistra Sindacale n. 21

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