Colombia, altro che accordi di pace, i leader sociali continuano a essere uccisi

by redazione | 15 Febbraio 2018 11:02

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È ancora il linguaggio della guerra a dettare legge in Colombia. Non è infatti bastata neppure la firma dell’accordo di pace con le Farc a far tacere le armi, se è vero che appaiono quasi a un punto morto le trattative con l’altra guerriglia, quella dell’Eln, sospese prima dell’inizio del quinto round negoziale e dopo il mancato rinnovo della tregua di tre mesi concordata tra le parti.

SE L’ESERCITO DI LIBERAZIONE nazionale, tuttavia, si dimostra militarmente assai attivo non è certo solo per il più ampio margine di manovra conquistato dopo l’uscita di scena delle Farc, ma soprattutto per l’assenza di fiducia nei confronti di un governo che ha dimostrato di prendere così poco sul serio gli impegni assunti nell’accordo di pace con la più importante guerriglia del Paese.

Talmente poco sul serio che è rimasto inapplicato addirittura l’82% di quanto previsto negli accordi, dalla riforma agraria integrale alla riforma politica, passando per la sostituzione delle coltivazioni di coca e per la giurisdizione speciale per la pace.

Questioni, tutte queste, di importanza fondamentale, considerando che la prevista riforma agraria avrebbe contribuito potentemente a rimuovere le cause strutturali della disuguaglianza sociale alla base del conflitto armato.

MA SE IL FUTURO degli accordi di pace dipenderà ormai dall’esito delle elezioni parlamentari dell’11 marzo e di quelle presidenziali del 27 maggio, è sicuro che il presente della Colombia appare sempre più sporco di sangue. Non solo quello dei guerriglieri e dei militari, ma, soprattutto, quello dei leader sociali, dei dirigenti indigeni, dei difensori dei diritti umani: 27 dall’inizio di gennaio (dopo i 116 del 2016 e i 174 del 2018), uno ogni giorno e mezzo, un ritmo che evoca gli anni del genocidio dell’Unión Patriótica, il più importante progetto politico legale della sinistra, quando, tra il 1986 e il 2002, vennero assassinati o fatti sparire ogni anno 300 dei suoi aderenti.

A CADERE, però, sono anche gli ex combattenti delle Farc, oggi entrati a far parte della Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común, il movimento politico in cui si è trasformata la guerriglia: più di 40 quelli uccisi dalla firma degli accordi di pace, tra il silenzio assordante della destra di Álvaro Uribe e i vergognosi balbettii del governo Santos. Un’ondata di violenza che ha indotto l’ex guerriglia ad annunciare, il 9 febbraio, la sospensione della propria campagna elettorale, denunciando «un piano coordinato diretto a impedire la partecipazione politica di un partito legalmente costituito» e invitando forze politiche, movimenti sociali, popoli indigeni e chiese a «promuovere un accordo politico nazionale per spezzare ogni vincolo tra violenza e politica». Difficile che Santos possa fare suo questo invito: a preoccuparlo molto più che il drammatico quadro di violenza all’interno del suo Paese, è infatti la «crisi umanitaria» del vicino Venezuela, alla cui frontiera ha spedito 3mila agenti della polizia e dell’esercito.

CHE SANTOS voglia fare della Colombia un attore chiave per un’eventuale aggressione militare contro il governo Maduro appare del resto più che evidente dalla sua totale subordinazione ai dettami di Washington, che spiega anche la richiesta – ribadita ieri al corpo diplomatico – di un aiuto esterno per soccorrere i venezuelani in fuga dalla crisi economica. Un’esplicita risposta a quell’offerta di aiuto «tecnico e umanitario» da parte del governo Usa interpretabile come un progetto di invasione mascherata.

FONTE: Claudia Fanti, IL MANIFESTO[1]

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  1. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

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