Indici di benessere, sull’Italia pesa la condanna alla precarietà

Dopo i dati sul Pil, arrivano quelli sul fatturato dell’industria. Che la produzione industriale fosse cresciuta nell’anno appena chiuso era noto, ora dall’Istat arriva una conferma: +5,1% rispetto al 2016 (+3,3% solo per il manifatturiero), miglior risultato dal 2011.
L’altra conferma è che le imprese il business l’hanno fatto con la domanda estera (+6,1%), vero motore, in questa fase, della nostra economia.
Nondimeno, a dimostrazione di quanto siano inadeguati questi parametri per valutare lo stato di benessere di una popolazione ci sono non soltanto i numeri sulla povertà e il disagio sociale (il nostro Paese raggiunge livelli scandalosi), ma anche altri fattori, più umani, perfino emozionali, che da un po’ di tempo sono entrati a far parte delle statistiche sociali a livello internazionale. La felicità, per esempio.
COSÌ, SE DA UN LATO il 2017 si è rivelato un anno importante per la crescita quantitativa del nostro Paese, la stessa cosa non si può dire della gratificazione dei suoi cittadini. Sviluppo della persona umana, qualità della vita, «libertà di essere e di fare e auto-realizzazione», opportunità, serenità e piacere, non entrano nel calcolo del Pil, dei surplus commerciali e dell’inflazione, ma, più di quest’ultimi, danno il senso della direzione di marcia di una comunità e del livello di soddisfazione di chi vi appartiene.
Nel caso dell’Italia, la distonia tra stime quantitative sull’andamento dell’economia ed indici di benessere e felicità dei cittadini è davvero notevole. L’ultimo World Happiness Report, classifica stilata dalla rete delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile (SDSN), rileva che il nostro Paese, benché rientrante nel 16% dei paesi più ricchi al mondo, si troverebbe al 48° posto (su 155) in quanto a felicità dei suoi abitanti, sotto di una postazione rispetto all’Uzbekistan, in compagnia con la Russia di Putin.
SUL PODIO la Norvegia, seguita, nelle posizioni di vertice, da Danimarca, Islanda, Svizzera, Finlandia, Olanda, Canada, Nuova Zelanda, Australia e Svezia. Insomma, rispetto ai cittadini di altre nazioni europee (e non solo), gli italiani sarebbero più sfiduciati verso il sistema e le istituzioni, si sentirebbero meno liberi di fare i propri progetti di vita, avvertirebbero maggiormente il peso delle ingiustizie e della corruzione nelle proprie vite.
SENTIMENTI, percezioni, la cui importanza è data anche dal fatto che, per il 2017, il documento si è basato specialmente sulle «fondamenta sociali della soddisfazione», a partire dalla felicità nel posto lavoro. «La felicità differisce considerevolmente attraverso lo stato di occupazione, il tipo di lavoro e i settori industriali. L’equilibrio vita-lavoro, la varietà del lavoro e il livello di autonomia sono altri fattori rilevanti», è il commento del professor Jan-Emmanuel De Neve, dell’Università di Oxford.
QUALCOSA che ha a che fare con la precarizzazione del lavoro (nel 2017 i posti stabili sono a -117mila), potremmo aggiungere noi, guardando agli effetti mutageni del Jobs Act sulla qualità dell’occupazione e la composizione stessa della base occupazionale.
CON LA RIFORMA della contabilità pubblica del 2016, comunque, il nostro Paese, tra i primi in Europa, ha introdotto gli «indicatori di benessere equo e sostenibile» nel ciclo della programmazione economica e di bilancio.
Come rileva lo stesso Istituto di statistica, «l’inclusione di tali indicatori costituisce un’innovazione rilevante perché impegna il governo a considerare le dimensioni del benessere, accanto a quelle più strettamente economiche, nella valutazione delle politiche pubbliche».
AL DI LÀ del dato formale, tuttavia, viene da chiedersi se e quanto il governo si sia impegnato, negli ultimi due anni, nel calibrare i propri bilanci e le proprie politiche pubbliche sulla domanda di benessere della popolazione, ovvero se tale impegno non sia stato del tutto disatteso, visti i provvedimenti che sono stati adottati proprio a partire dal nuovo corso della contabilità di Stato, dai tagli alla sanità ed alla ricerca, fino all’imbroglio dell’abolizione dei voucher.
FONTE: Luigi Pandolfi, IL MANIFESTO
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