Intervista a Vladimiro Giacché. La crisi è del modello. Tra tunnel greco, Titanic Europa e nuove bolle
«Una crisi di un modello di sviluppo basato sulla finanza» a cui «l’establishment mondiale non si è rassegnato, rimettendolo in piedi». Per Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa Ricerche (CER), dieci anni di crisi globale non hanno insegnato niente. E per questo il futuro si annuncia segnato: «Andiamo verso una stagnazione secolare con ritmi di crescita molto bassi» e «diseguaglianze in aumento» perché «quel minimo di crescita e di recupero dell’occupazione è slegata da un aumento dei salari», favorendo invece le rendite. Il tutto alla vigilia di una possibile nuova crisi finanziaria.
Rapporto Diritti Globali: Dieci anni fa negli Stati Uniti scoppiò la crisi dei mutui subprime. Dal punto di vista globale finanziario ne siamo finalmente usciti come sostengono molte organizzazioni internazionali?
Vladimiro Giacché: Da quella crisi probabilmente sì. Ma bisogna intendersi sull’uso delle parole. Se uscire dalla crisi significa ritorno alla crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL), dalla crisi scoppiata 10 anni fa siamo usciti da tempo. Se significa superare i livelli di PIL pre-crisi, l’Italia non ne è ancora uscita. Lo stesso vale per gli investimenti, che nel nostro Paese hanno conosciuto un vero e proprio crollo. L’Italia è uno dei Paesi che ha patito di più questa crisi.
Ma va fatto un discorso più generale. I ritmi di recupero post-crisi sono assai deludenti in tutti i Paesi capitalistici avanzati: pur a fronte di politiche monetarie eccezionalmente espansive, sia negli Stati Uniti che in Giappone e nell’Unione Europea, la crescita media post-crisi è stata molto bassa, molto più bassa di quella successiva a crisi precedenti. Tanto che alcuni studiosi statunitensi hanno cominciato a parlare di “stagnazione secolare”, ossia della condanna a ritmi di crescita molto bassi per un lungo periodo di tempo, quale ipotesi per il futuro prossimo e meno prossimo. Secondo me questa situazione si spiega in un modo molto semplice: nel 2007 è andato in pezzi un modello di sviluppo – basato sulla finanza e sul debito (privato in primis) – che aveva sorretto (ma dovremmo dire “drogato”) la crescita dagli anni Ottanta in poi. L’establishment mondiale non ha saputo rassegnarsi alla fine di quel modello, e ha tentato in tutti i modi di rimetterlo in piedi. Ma si tratta di un tentativo destinato ad avere costi crescenti e rendimenti calanti: come dimostra il fatto che dosi sempre più massicce di liquidità immessa dalle banche centrali nel sistema hanno avuto come risultato ritmi di crescita dell’economia molto modesti. Inoltre, i benefici di queste iniezioni di liquidità sono stati distribuiti in modo molto iniquo: molto è andato a percettori di rendite finanziarie, ben poco al lavoro. Infine, sono evidenti i rischi derivanti dalla riproposizione di quel modello: creazione di nuove bolle finanziarie e conseguenti nuove crisi. Insomma: dalla crisi il mondo è uscito, dal modello di crescita che l’aveva originata no.
RDG: La crisi si propagò all’Europa in poco tempo. E fu affrontata in maniera diversa e non univoca dalle istituzioni continentali e dai governi dei vari Paesi. In Italia prima fu negata, poi arrivò la famosa lettera della BCE che impose misure e riforme draconiane. L’austerità è stata la cifra comune. Oggi possiamo trarre un bilancio delle misure e delle politiche prese in quegli anni?
VG: Questo bilancio è fallimentare. In particolare per il nostro Paese. E non tanto perché sia stata affrontata in ritardo, ma perché è stata affrontata con le misure sbagliate. In particolare, le misure draconiane chieste dalla BCE (che ci hanno dato un esempio pratico di cosa significhi l’indipendenza della banca centrale dai governi: significa che i governi dipendono dalla banca centrale), e poi messe in atto dal governo Monti, sono state misure pro-cicliche: non soltanto lo Stato non è intervenuto con la spesa pubblica per ridare fiato con investimenti alla domanda aggregata, che era caduta per il crollo della domanda privata; ha fatto di peggio: ha operato una stretta di bilancio, riducendo gli investimenti, tagliando le pensioni (legge Fornero) e aumentando le tasse. Mi permetto una annotazione di carattere personale: nel dicembre 2011, a governo Monti appena insediato, terminai di scrivere la prima edizione di Titanic Europa, un libro dedicato alla storia della crisi. In quel libro prendevo una posizione molto critica nei confronti delle manovre annunciate dal governo Monti, pronosticando «un drammatico calo della domanda interna e dei consumi. Con il risultato di una compressione, anche molto pronunciata, del prodotto interno lordo». E aggiungevo: «È appena il caso di ripetere che il calo del prodotto interno lordo del nostro Paese peggiorerà il rapporto debito/PIL e quindi farà fare all’Italia un altro passo nel tunnel greco» (Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato, prima ed. gennaio 2012, pp. 107 e 108).
Purtroppo, è andata esattamente così: durante il governo Monti la crisi si è approfondita, gli spunti di ripresa dell’economia si sono tramutati in un altro severo calo del prodotto interno lordo, sono stati distrutti i tre quarti dell’intera produzione industriale persa in questi anni di crisi e, dulcis in fundo, il debito è cresciuto. Del 13 per cento, per la precisione. L’austerità ha trasformato una crisi già grave nella crisi peggiore in tempi di pace dall’Unità d’Italia. Qui ci sono gravi responsabilità sia a livello europeo, che per quanto riguarda i governanti del nostro Paese. Le istituzioni che dirigono l’Unione Europea, e in particolare l’eurozona, hanno la responsabilità di aver prima fatto esplodere la crisi greca (che sarebbe stata gestibile con costi molto più bassi se affrontata per tempo) e creato un effetto domino che ha colpito molti Paesi dell’eurozona, poi di aver imposto a questi Paesi misure insensate di finanza pubblica, che hanno unicamente aggravato la crisi, trasferendone contemporaneamente il peso dalle banche (in particolare le banche francesi e tedesche) ai contribuenti europei (di fatto i prestiti alla Grecia del Meccanismo Europeo di Stabilità – il cosiddetto ESM – hanno infatti consentito a quelle banche di riportare a casa i loro crediti senza troppi danni). Quanto ai nostri governi, hanno la grave colpa di aver accettato un ricatto inaccettabile: politiche pro-cicliche e controproducenti in cambio del possibile intervento della BCE in soccorso dei titoli di Stato nel mirino della speculazione. Questo ricatto avrebbe dovuto essere rispedito al mittente.
RDG: Gli Stati Uniti furono i primi a uscire dalla crisi grazie alle politiche espansive della Fed e agli aiuti di Barack Obama all’industria, in primis quella dell’auto. È stata una strategia lungimirante?
VG: È stata una tattica efficace. L’intervento è stato tempestivo, e per questo è costato di meno di quanto sia costato ai Paesi dell’Unione Europea salvare le proprie banche. Si è trattato di una socializzazione delle perdite su vasta scala, che è servita a salvare con soldi pubblici sia la grande finanza che una parte dell’industria manifatturiera statunitense. C’è un solo caso confrontabile in Europa: quello della Germania, che è intervenuta nel 2008/2009 con ben due pacchetti di aiuti all’industria (valore totale: 69 miliardi di euro), e spendendo 250 miliardi di euro per salvare le proprie banche (ma in questo caso su un orizzonte temporale più lungo). Salvo poi impedire agli altri Paesi europei in crisi dei fare lo stesso, imponendo le politiche di cui ho detto prima. Ma anche dal punto di vista della politica monetaria, ricordo che in Europa per ben due volte, nel 2008 e ancora nel 2011, Jean-Claude Trichet, il predecessore di Draghi, alzò i tassi in piena crisi. Dopodiché, anche la BCE ha dovuto adottare una strategia simile a quella statunitense: politiche monetarie estremamente espansive (sino ai tassi a zero per cento) e acquisto di titoli di Stato e altri assets (tra cui obbligazioni societarie) per tenere alti i prezzi che i mercati stavano deprimendo. Purtroppo, non molti di questi capitali sono finiti all’economia reale.
Più in generale, il problema è che queste politiche possono andare bene in una fase di emergenza, poi ci vuole una strategia di uscita dalla crisi. Questa strategia non la vedo negli Stati Uniti, e tantomeno la vedo in Europa.
RDG: Oggi alcuni dati economici americani e inglesi (debito privato sulle carte di credito) portano varie cassandre a sostenere che siamo alla vigilia di una nuova crisi ancora più devastante. È un rischio reale?
VG: Sì, per i motivi che accennavo sopra: si è fatto ripartire il modello della crescita a debito. Io credo che questo modello si sia rotto irreparabilmente nel 2007. Se le cose stanno in questi termini, la previsione è facile: cicli espansivi più modesti e più brevi, seguiti da altre crisi finanziarie. L’innesco è secondario: oggi può essere quello che veniva citato nella domanda, ma ci sono altri buoni candidati, quali le criptovalute, il debito pubblico greco, magari il settore immobiliare tedesco.
RDG: In Europa invece il Quantitative Easing di Draghi sta per concludersi. L’impalcatura europea e la sua economia sono in grado di affrontare una nuova fase? Arriverà la tanto invocata inflazione?
VG: La mia risposta è negativa a entrambe le domande. L’impalcatura europea e la sua economia non sono in grado di affrontare questa nuova fase perché in questi anni non si è posto rimedio alla divergenza tra le economie del continente, e in particolare dell’eurozona. E questo in quanto non si sono eliminate le sue cause di fondo: in primo luogo, il fatto di aver messo fuori uso con la moneta unica un meccanismo automatico di riequilibrio dei differenziali di competitività quale è il riaggiustamento del cambio, e in secondo luogo l’aver consentito al Paese più importante dell’area valutaria, la Germania, una politica mercantilistica e non cooperativa, imperniata sulla “moderazione salariale” (che in Germania ha significato per gran parte del periodo successivo all’introduzione della moneta unica salari più bassi in termini reali, pur a fronte di incrementi di produttività del lavoro). Queste due cause, combinate tra loro, hanno determinato l’avanzo commerciale della Germania (che da anni è ben superiore al 6 per cento stabilito come limite massimo dal patto di stabilità), e più in generale quello squilibrio della bilancia dei pagamenti tra i Paesi dell’eurozona che ha portato alla crisi.
Quanto all’inflazione, mi sembra che gli ultimi anni abbiano smentito clamorosamente tutti coloro i quali ritenevano che l’inflazione dipendesse dalla quantità di moneta messa in circolazione dalla banca centrale. La verità, ovviamente, è un’altra: che i prezzi salgono quando le merci e i servizi costano di più, e questo succede quando i prezzi di produzione aumentano e quando la domanda di un bene supera l’offerta di quel bene. Ma se io tengo i prezzi di produzione bassi (e in particolare il costo del lavoro, perché è l’unico modo attraverso il quale posso recuperare competitività, visto che il riaggiustamento del cambio è precluso e né i privati né lo Stato investono) e quindi ci troviamo nel pieno di una crisi da domanda (notoriamente chi guadagna di meno spende di meno), non c’è un particolare rischio di spinte inflazionistiche. E infatti il livello di inflazione, da anni e nonostante migliaia di miliardi di euro immessi in circolazione dalla BCE, è ancora al di sotto del target della BCE.
RDG: Le prospettive di crescita tanto decantate avranno effetto sull’occupazione e sui salari?
VG: Al momento la nostra crescita è legata in particolare al ciclo mondiale, che traina le nostre esportazioni. Qualche beneficio in termini di occupazione si vedrà, ma non dobbiamo dimenticare che, a dieci anni di distanza dall’inizio di questa crisi, siamo tuttora a 1,1 miliardo di ore lavorate in meno rispetto ad allora: una cifra che corrisponde a un 5 per cento di occupati in meno. Quanto ai salari, è ben difficile che crescano in un contesto in cui si è fatto di tutto per indebolire il potere negoziale dei lavoratori (vedi Jobs Act). E infatti una delle tendenze attuali, non soltanto in Italia, è rappresentata da un recupero dell’occupazione che non si accompagna a una crescita dei salari.
RDG: Nonostante la crescita, il livello di diseguaglianza continua ad aumentare. Ci può spiegare il motivo?
VG: Perché un modello di crescita basato sulla finanza e sul debito favorisce per definizione i detentori di rendite rispetto a chi lavora. Inoltre, è il modello stesso dell’Unione Europea, sin dal Trattato di Maastricht, a far leva sulla “forte competizione” tra gli Stati membri, una competizione basata sulla deflazione salariale, oltreché sul dumping fiscale. In un contesto del genere la diseguaglianza non può che aumentare. E infatti aumenta. E non soltanto nei Paesi in crisi, ma anche in Germania. Mi sembra la prova più evidente del fatto che questo modello non funziona.
RDG: La crisi ora viene definita «La grande recessione». È una definizione azzeccata o riduttiva della sua portata? Se e, nel caso, come ha modificato l’idea di globalizzazione?
VG: In effetti, qualche mese fa è uscito un libro di un economista inglese, Michael Roberts, dal titolo The Long Depression: vi si sostiene la tesi secondo cui l’attuale sarebbe una depressione e non una semplice recessione, e che essa potrebbe essere lunga quanto la depressione della fine del secolo XIX, durata dal 1873 al 1896. È una tesi che merita di essere presa seriamente in considerazione.
In una crisi come quella che stiamo vivendo, è normale che si affaccino spinte protezionistiche. È di moda condannare queste spinte, in modo un po’ aprioristico. La verità però è che quello che si contrappone loro è un modello di globalizzazione che ha premuto l’acceleratore in particolare sulla libertà di movimento dei capitali: un modello, insomma, ben lontano dalla Globalizzazione intelligente (io preferisco definirla “ben temperata”) di cui ci parlava anni fa l’economista Dani Rodrik in un suo libro molto bello, e che meriterebbe di essere letto e meditato. Per dirla in altri termini: non è scritto da nessuna parte che sia particolarmente desiderabile il modello di apertura indiscriminata dei mercati, che consente ai capitali di fare arbitraggio e di andarsene dove loro più conviene senza dover pagare alcun dazio (in senso proprio e figurato). Questo modello, infatti, da un lato comprime i diritti e abbassa il livello di protezione dei lavoratori, dall’altro consente alle grandi corporations di aggirare e neutralizzare il potere e l’autorità degli Stati nazionali. Purtroppo, la nostra élite ha scelto da tempo il ruolo di propagandista e rappresentante di quel modello. Salvo stupirsi e indignarsi per la crescita del cosiddetto “populismo”.
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