Elezioni. Non serve coprire la voragine della sinistra, ma capire perché

Elezioni. Non serve coprire la voragine della sinistra, ma capire perché

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E i fatti di Macerata potrebbero moltiplicarsi

La voragine a sinistra che i risultati esplosivi di queste elezioni mostrano, non va riempita: va proprio rifatta la strada, per usare una metafora della viabilità romana. Subito tentando alcune considerazioni “di sinistra”, proprio mentre la sinistra non esiste più.

In primo luogo sull’astensione. Il 73% , certo più alto delle aspettative, è un dato peggiore delle elezioni del 2013: il 27% degli aventi diritto non ha votato. È dunque il vero secondo partito italiano e non riceverà incarichi di governo. Si tratta dell’astensione di larghe aree tradizionalmente di sinistra (quanti lettori del manifesto alla fine non hanno votato?). Qual era dunque l’offerta elettorale a sinistra, a quanto pare rifiutata e, obtorto collo, quale quella che offriva il Pd di «centrosinistra»? Naturalmente sulle questioni dirimenti, dalla presenza in Europa e nell’euro, all’occupazione, ai diritti negati come lo Ius soli, sulle migrazioni, sulla spesa pubblica, compresa quella militare – finita a dir poco in modo ambiguo anche nella piattaforma del M 5S -, decisiva perché determina la collocazione internazionale dell’Italia.

La risposta è necessaria anche perché sembra essersi aperta una resa dei conti televisivo-digitale di esponenti di quel che rimane del Pd: la colpa del disastro sarebbe – visti i magri risultati – della lista LiberieUguali.

Uno scaricabarile che richiama il cosiddetto “voto utile” che rischia di rovinare ingiustamente addosso anche alla lista di Potere al popolo.

In realtà, a ben vedere, a tirare la volata al M5S – un contenitore buono per tutte le stagioni, una sorta di “forma dell’acqua”, è tutto e il suo contrario a seconda del vento digitale del momento – ma soprattutto alla Lega razzista di Salvini, è stato il governo del Pd, prima con Renzi poi con Gentiloni, e più precisamente sono state le politiche del ministro di polizia Minniti.

Che ne può infatti dedurre, se non una scelta elettorale per l’originale di destra, chi va a votare e ha avuto davanti agli occhi le politiche di chi, come Minniti, “per salvare la democrazia” ha assunto sui migranti operatività e parole d’ordine della destra dando dignità politica alla paura irrazionale dell’”invasione” del diverso? Da “aiutiamoli a casa loro”, alla criminalizzazione dei soccorsi umanitari, al blocco di fatto nel Mediterraneo dell’accoglienza, alla consegna dei disperati in fuga da guerre e miserie spesso da noi provocate alle milizie libiche, alle loro multiformi casacche di gestori di galere, torture e campi di concentramento, fino all’ultimo intervento militare in Niger spostando laggiù la linea rossa del “confine dell’Europa”; e fino a far balenare nei fatti di Macerata – dove la Lega stravince – la possibilità di vietare la mobilitazione antifascista contro lo squadrismo fascio-leghista. E attenzione, perché le “Macerata” adesso si moltiplicheranno.

Sull’Europa poi, viene da rabbrividire a pensare agli inutili annunci di una Grossa coalizione italiana (un grande centro) o di un avvento di un Macron nostrano. Come evocato dal mentore di Trump, Steve Bannon, ora l’Italia entra nel laboratorio del populismo mondiale che, non dimentichiamolo, propone subito l’instabilità e la violenza, una sorta di guerra civile mondiale a partire subito da tante guerre commerciali perché ognuno difende e ad ogni costo la propria primazia etno-economica e le propri invalicabili frontiere. Ma proprio per questo va sottolineato che il populismo anti-Ue del M5S e quello della Lega sono stati alimentati dall’incapacità di gestire nell’Unione europea fin qui realizzata, una strategia di democrazia sostanziale e sociale di fronte alla domanda prepotente dei cosiddetti Mercati che hanno chiesto e chiedono di azzerare le conquiste sociali per estendere la pervasività delle leggi di mercato e di mimetizzare il nodo del lavoro che non c’è con leggi che eternizzano il precariato; stritolando così il ruolo dei bilanci dei rispettivi Stati con il concorso del famigerato Fiscal compact . In sostanza, silenziato, finora, il ruolo internazionale dei sindacati e venuta meno a sinistra da tempo la battaglia contro il modo di produzione capitalistico e la sua natura attuale iper-finanziaria, quel vuoto viene riempito a destra con una nuova narrazione che ne assume la rappresentanza, perfino con il richiamo (come in Ungheria e Polonia) al ruolo attivo dello Stato. Così la giusta, doverosa e inascoltata protesta delle classi subalterne colpite dalla crisi – con gli operai ridotti nella periferia dell’ultima fabbrica chiusa – viene trasformata, come accade ogni giorno, in rancore interclassista e nazional-xenofobo. Lo spettro di Weimar si aggira per l’Europa e in Italia.

Ora il rottamatore Matteo Renzi invece delle dimissioni annuncia che lo farà “solo dopo la formazione del governo”, un chiaro ricatto sugli sviluppi della crisi a sinistra e verso il ruolo del presidente Mattarella e le difficoltà in corso per una nuova maggioranza. Così protervo che meriterebbe una campagna sulle note di “te ne vai o no, te ne vai sì o no?!”. Intanto però conviene interrogarsi anche sui limiti dell’offerta politica alla sinistra del Pd, senza sottovalutare il fatto che stavolta LeU almeno segna una presenza in Parlamento. Ma senza nasconderci che la proposta a sinistra del Pd era poca, divisa e male attrezzata e probabilmente questo ha indotto molti a non votarla: lo ripetiamo, l’astensionismo al 27% è per larga parte di sinistra.

La coalizione di LeU infatti accorpava forme comprovate e affidabili, come Sinistra italiana, ad altre improvvisate come “Possibile”, o spurie come i fuoriusciti dal Pd dopo il referendum; tra i quali alligna la speranza – legittima ma che va oltre la necessità ineludibile di una nuova formazione di sinistra – della riconquista di un “Pd senza Renzi”; senza dimenticare la corresponsabilità in tante scelte di governo a dir poco sbagliate di figure come Bersani e D’Alema. Né è bastata a quanto pare la partecipazione generosa, ma piovuta dall’alto e all’ultimo momento, di figure istituzionali come Grasso e Boldrini. Per Potere al popolo e al suo altrettanto generoso quanto infruttuoso tentativo, si dovrà fare i conti con la povertà dell’autosufficienza di chi pensa: esistiamo, ci siamo contati, abbiamo messo in connessione le lotte. Ma può bastare questa identità dell’1,1% (forse) a contendere lo spazio alla destra che dilaga e se l’obiettivo è un movimento che combatta lo stato delle cose presenti?

Resta dunque per difetto ancora – per quanto ancora? – l’obiettivo della ricostituzione di una forza della sinistra, di classe e alternativa, europea perché antinazionalista, pacifista e coinvolta ad unire tutti i deboli, che costruisce lotte perché pensa ad un cambio di governo del Paese, e che sia ben più ampia della disastrosa conta attuale, meno autarchica e più unitaria e comprensiva. Le elezioni sono finite, ed era ora. Bisogna riaprire al più presto il confronto a sinistra che fino ad un certo punto è stato il “Brancaccio”. Magari cambiando teatro, ma la scena è quella. E il manifesto, forma originale della politica, è parte in causa.

FONTE: Tommaso Di Francesco, IL MANIFESTO



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