Il Progetto Moi a Torino, la scommessa di investire sui migranti

by Enrico Mugnai | 14 Marzo 2018 9:54

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Risorse per sei milioni di euro, ma i tempi potrebbero essere troppo stretti per riuscire a includere tutti. Tra operai, saldatori e aiuto cuochi c’è anche chi sta per laurearsi in ingegneria

Patrick viene dalla Nigeria, ed è uno dei pochi stranieri che, con grandi sacrifici, riescono a studiare. Sosterrà l’ultimo esame di ingegneria meccanica tra poche settimane. Con la sua bici pedala fino al Politecnico di Torino lasciandosi alle spalle sua moglie e sua figlia che lo guardano allontanarsi dalla palazzina arancione dell’ex villaggio olimpico in via Giordano Bruno, quartiere Filadelfia, prima periferia ovest di Torino.

Nel 2013, alla chiusura dell’Emergenza Nord Africa, oltre 60mila migranti fuggiti dalla guerra in Libia, dal caos tunisino e dal Medio Oriente, si trovarono senza un posto dove stare. Alcune centinaia occuparono quattro palazzine costruite per le olimpiadi invernali torinesi del 2006 trasformando così un posto desolato nella loro casa.

SUL MOI (CHE PORTA IL nome di quelli che furono i Mercati generali ortofrutticoli) pende un’ordinanza di sgombero. Nel maggio 2017 è stato firmato da Comune di Torino, Città metropolitana, Regione, Prefettura e Diocesi un protocollo d’intesa per il progetto Moi: un’opportunità di inclusione.

L’iniziativa è tesa a sgomberare le oltre 1000 persone che ci vivono. Vengono da 28 Paesi, spesso lontani gli uni dagli altri. Età, lingue, esperienze diverse. Da anni in Italia, quasi tutti titolari di protezione internazionale.

SUL TAVOLO CI SONO 6 milioni di euro. Il progetto si esaurirà entro il 2020. Sono previsti interventi per facilitare l’accesso alla casa, al lavoro, procurare una assistenza per i vulnerabili e attuare una riqualificazione urbana. Il piano dovrebbe riguardare 745 persone, poco più della metà dei reali residenti.

Al tavolo di concertazione sono stati inviati gli abitanti del Moi e il Comitato che li sostiene. «Abbiamo incontrato sindaca e prefetto a febbraio 2017 – racconta Mahmud – la principale richiesta era che i progetti non si limitassero a percorsi di 6 o 12 mesi perché sappiamo benissimo che non serviranno a niente e tra un anno saremo di nuovo per strada». Dopo quella riunione è stata diffusa nelle palazzine una lettera firmata dalla sindaca Chiara Appendino in cui si sanciva l’impegno del Comune per un progetto basato proprio su quel limite temporale.

I RESPONSABILI DEL progetto hanno stimato che almeno l’80% delle persone coinvolte raggiungerà nei tempi stabiliti l’autonomia economica. «Ho forti dubbi che sia un traguardo raggiungibile – dice Sergio Durando, direttore della Pastorale migranti – serve un rallentamento nei tempi del progetto».

Molti di quelli inseriti, dopo qualche settimana di corsi di formazione, nei due circuiti attivati, operaio o aiuto cuoco, stanno già facendo ritorno al Moi.

ASSAD HA SEGUITO UN corso per saldatore di 200 ore a San Benigno: «Il responsabile ha detto che ci avrebbero dato un patentino, non era vero, è solo un attestato». L’11 settembre viene mandato a Monfalcone, nei cantieri navali di Fincantieri «ma non c’era lavoro, allora ci hanno portato a Porto Marghera». Lì sta due settimane per poi fare ritorno a Monfalcone. «Prendo circa 1200 euro al mese. Dallo stipendio vengono tolti dei soldi per l’affitto, anche se per i primi 6 mesi dovrei essere coperto dal progetto». Ad Assad hanno rinnovato il contratto per due mesi, «scade il 28 febbraio, oggi è il 27 e non so ancora niente. I primi di marzo finirà anche quello della casa. Ho già preparato le valige, tornerò al Moi».

MENO DEL 10% DEI MIGRANTI inseriti in questi percorsi è riuscito ad avere un contratto a tempo indeterminato. Per gli altri si prospettano periodi anche lunghi di inattività, per poi essere costretti a inseguire il lavoro da Porto Marghera a La Spezia, da Palermo a Riva Trigoso, da Monfalcone a Castellammare.

Dei 12 impiegati come aiuto-cuoco, ne resta solo uno al lavoro, gli altri sono già tornati nelle loro affollate stanze in via Giordano Bruno.

IL COMUNE HA MESSO A bando la gestione di 50 migranti, ma non ci sono state abbastanza offerte perché il budget era di 11 euro a persona, impossibile garantire anche solo l’alloggio e le utenze, come prescriveva il Comune.

Undici persone che vivevano nei sottosuoli del Moi, i primi a essere sgomberati, sono state affidate dal Comune all’associazione L’Ulivo. Quando sono arrivati nella struttura versavano in pessime condizioni fisiche e mentali. I vestiti sporchi e logori sono stati sostituiti da quelli donati dalla cooperativa perché il Comune non aveva previsto una tale esigenza. «Stanno seguendo corsi d’italiano perché nonostante siano qui da anni non conoscono la lingua», dice Elena Crapanzana, una operatrice. Queste persone non hanno fatto i vaccini obbligatori nonostante siano passati per le strutture d’accoglienza di tutta Italia. Sono ragazzi vittime di violenza e hanno accettato di incontrare uno psicologo per cercare di guarire quei traumi che forse non hanno mai raccontato.

L’ACCOGLIENZA IN QUESTA struttura durerà 128 giorni a partire dal 23 febbraio, a giugno, se non ci sarà un prolungamento, dovranno andarsene.

Per Sergio Durando serve una riflessione a monte. «L’accoglienza non funziona, le persone non imparano l’italiano, non vengono formate per un lavoro e soprattutto non sono preparate ad affrontare la Commissione che deciderà del loro futuro. Ci troviamo il 60% a cui viene rifiutata una protezione internazionale che, nell’impossibilità di tornare nei loro paesi, vanno ad allargare le fila di chi non ha niente ed è lasciato a sé stesso».

NEGLI ANNI LE PERSONE SI sono cercate occupazioni. Molti fanno gli stagionali nelle campagne di tutta Italia, da Saluzzo a Rosarno e Foggia. Altri lavorano come operai. Ibrahim, giovane sudanese, da tre anni è impiegato in una fabbrica della provincia di Torino: «Lavoro quasi sempre al nero, senza un regolare contratto non posso affittare una stanza, sono costretto a vivere al Moi», dice mentre frigge delle teste di pesce, insieme al riso bianco saranno la cena per 5 persone.

Alle 7 di sera molti passano dal piccolo bar sorto tra le palazzine per scaldarsi e bere un tè. Ci sono laureati che mostrano sul cellulare le decine di curriculum inviati. A pochi va bene come a Peter, che dopo il consueto disperato viaggio dalla Nigeria era arrivato in Sicilia e poi a Torino. Fuori da ogni accoglienza aveva trovato rifugio nella babele di via Giordano Bruno. La disperazione era stata spazzata via quando una mail da San Francisco gli aveva fatto sapere che Google lo assumeva. Ingegnere informatico, nonostante la saltellante connessione del cellulare, era riuscito a inviare il suo curriculum al colosso americano.

ANTONELLA ROMEO, giornalista, curatrice del volume Abbandoni (Edizioni SEB27, 2017) ritiene che «la restituzione degli edifici al legittimo proprietario non possa essere realisticamente una priorità nemmeno per la proprietà. Le 4 Palazzine occupate fanno parte del portafoglio del Fondo città di Torino, un Fondo immobiliare, creato nel 2007 dal Comune per rinsanguare le casse pubbliche dopo le Olimpiadi invernali del 2006. La Prelios SGR, che gestisce il fondo immobiliare, non è però riuscita a far fruttare quel portafoglio e così non ha potuto restituire il finanziamento di circa 90 milioni di Euro delle banche, principalmente Intesa San Paolo. Il Fondo città di Torino, di cui non parla più nessuno, è congelato. Nessuno ha interesse di dichiararne il fallimento, tanto meno la banca finanziatrice, che dovrebbe mettere all’asta gli immobili del portafoglio, comprese le 4 palazzine che nessuno si è voluto comprare quando erano nuove di zecca».

SULLA COSTRUZIONE DELLE 33 palazzine del villaggio Olimpico, costate 34 milioni al Comune di Torino, ci sono due processi in corso. Uno che vede come imputata l’impresa mandataria del lotto dove ci sono le palazzine occupate, la Maire Engineering (ex Fiat Engineering) e parte lesa il Comune di Torino, che ha denunciato il colosso delle grandi imprese per i lavori fatti non a regola. L’altro vede imputato Ilario d’Agostino reo, secondo l’accusa, di aver usato la sua ditta per riciclare il denaro della cosca ‘ndranghetista Spagnolo.

«Il tema della mancanza di legalità, da molti collegato all’immigrazione, troverebbe un segnale dirompente se si pianificasse un recupero delle palazzine col lavoro dei rifugiati che le abitano», dicono dal Comitato.

IL TIMORE DI PATRICK è che dopo la laurea, senza un posto dove vivere con sua moglie e sua figlia, non troverà nessuno disposto a dargli un lavoro. Come molti crede che l’oblio avvolgerà gli abitanti del Moi, e una volta sgomberate le palazzine, le loro vite saranno lasciate ad appassire di nuovo come quelle costruzioni.

FONTE: Enrico Mugnai, IL MANIFESTO[1]

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  1. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

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