Quel sogno della Catalogna che l’Europa non incoraggerà

Barcellona è una citta superba (nel senso genovese della parola), orgogliosa del proprio passato mediterraneo, patria della prima rivoluzione industriale spagnola, ultimo baluardo della Repubblica alla fine della guerra civile, il solo luogo europeo in cui il genius loci abbia saputo coniugare così brillantemente il gotico delle sue cattedrali con le follie moderniste di Antoni Gaudì, architetto, nei primi due decenni del Novecento, di parecchie case signorili e della Sagrada Familia. Nei pochi giorni che ho passato a Barcellona, recentemente, vi è stata una grande manifestazione organizzata da coloro che sono contrari al movimento indipendentista; ma in un clima straordinariamente civile senza scontri e tumulti.
Il solo scontro di cui posso parlare, paradossalmente, è quello, altrettanto civile, di cui sono stato protagonista. Avevo informato del mio arrivo alcune vecchie conoscenze che appartenevano alla cerchia di Jordi Pujol, energico e amato presidente della Generalitat dal 1980 al 2003. Mi hanno invitato a una colazione, presieduta dallo stesso Pujol, e hanno lasciato al più giovane del gruppo il compito di pronunciare l’atto d’accusa. Ero colpevole, ai loro occhi di avere scritto per il Corriere , qualche mese fa, un articolo contro le secessioni in cui sostenevo che il secessionismo catalano, in particolare, era una delle molte forme di populismo che affliggono l’Europa in questi anni. Sbagliavo. Secondo il mio interlocutore, gli indipendentisti catalani si battono per conservare e difendere la loro identità e la loro lingua contro l’arroganza castigliana. Ha invocato, come prova delle sue parole, le misure poliziesche e giudiziarie adottate dal governo di Madrid per boicottare le decisioni popolari. Ha ripetuto più volte che l’identità catalana è in pericolo.
Questi argomenti non mi hanno convinto. Ho ricordato che tutti in Europa sapevano quanto fosse fondamentale l’apporto della Catalogna alla economia nazionale spagnola e ho aggiunto che l’«identità» mi è sempre sembrata un concetto vago, spesso retorico. Quando ho osservato che molte industrie catalane, spaventate dalla prospettiva di una Catalogna indipendente, erano andate ad accasarsi in altre parti della Spagna, il mio «accusatore» mi ha assicurato che la maggioranza è «tornata casa». E ha fatto del suo meglio per darmi l’impressione che gli indipendentisti sono decisi a continuare la loro battaglia contro la «tirannia» spagnola.
Ho cercato di spiegare, infine, le ragioni per cui mi sembrava che il tentativo, almeno nella sua concezione originale, dovesse considerarsi fallito. Gli indipendentisti si erano messi in movimento nella convinzione che la Catalogna, dopo avere realizzato il suo sogno, sarebbe stata accolta a braccia aperte dall’Unione Europea. La scissione, in questa prospettiva sarebbe stata una sorta di pacifico trasloco. La Catalogna avrebbe lasciato una casa nazionale per entrare contemporaneamente nella più grande Casa europea cui la stessa Spagna appartiene. Il sogno non si è avverato perché la Commissione e il Parlamento di Strasburgo, soprattutto in questo momento, non hanno alcun interesse a incoraggiare con la loro ospitalità altri separatismi. L’Europa conta un numero considerevole di potenziali patrie irredente e non vuole lanciare segnali sbagliati. Se avessero seguito più attentamente i negoziati della Commissione con la Gran Bretagna per definire le condizioni del divorzio, gli indipendentisti catalani avrebbero constatato che l’Ue ha adottato atteggiamenti un po’ più concilianti soltanto dopo avere dimostrato al mondo che la fine del rapporto stretto con l’Europa di Bruxelles e Strasburgo ha un costo non indifferente. (Spero che da questa linea non abbia alcuna intenzione di allontanarsi).
Non credo di essere riuscito a cambiare le idee del mio interlocutore. Ma alla fine della conversazione mi ha chiesto che cosa farei, in questa situazione, se fossi catalano. Gli ho risposto che andrei a Bruxelles per rassicurare la Commissione che «dopo qualche ripensamento abbiamo deciso di rinunciare alla soluzione separatista». Ma porterei una lista di richieste per migliorare lo status della regione. «Se le richieste sono ragionevoli — ho aggiunto — la Commissione vi darà una mano».
FONTE: Sergio Romano, CORRIERE DELLA SERA
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