Egitto, elezioni con 60% di astensione ma al-Sisi rieletto festeggia

Egitto, elezioni con 60% di astensione ma al-Sisi rieletto festeggia

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I 23 milioni di egiziani che da lunedì a mercoledì hanno infilato la scheda nell’urna e il dito nell’inchiostro hanno permesso al presidente al-Sisi non solo di vincere, ma di forgiarsi di un’affluenza relativamente accettabile: poco sopra il 40%, inferiore al 47,9% del 2014 del suo primo mandato ma superiore di dieci punti abbondanti rispetto alle parlamentari del 2015. Non il 50% sperato, ma quasi.

Il 92% ha votato per il presidente-golpista, un misero 3% per lo sfidante-fantoccio Mousa Mustafa Mousa, di cui ancora molti si chiedono chi sia: cosa nota è che il suo partito, il liberale Ghad, dieci giorni prima della candidatura aveva dato sostegno al presidente.

Mercoledì notte Mousa si è pure presentato in tv accettando la sconfitta (sic) e dicendo di aver sperato in un 10%, ma «conoscevo l’immensa popolarità del presidente». Ha parlato, via Twitter, anche al-Sisi: «La voce degli egiziani è, oltre ogni ragionevole dubbio, il testamento della volontà della nostra nazione di imporsi con una forza che non conosce debolezza. Le code ai seggi sono il mio orgoglio».

Resta un 5% di schede non valide: secondo il giornale pro-governativo al-Ahram, due milioni di votanti hanno annullato la scheda scrivendo a penna i nomi degli sfidanti che avrebbero voluto concorrere ma che, o arrestati o minacciati o boicottati dalla stampa, si sono ritirati prima del 29 gennaio, data ultima per iscriversi.

Annullare la scheda come atto di sfida, simile al boicottaggio delle urne per cui tantissimi altri hanno optato: la maggioranza, sei egiziani su dieci. Vuoi come azione politica in sé, vuoi per la consapevolezza dell’inutilità del voto.

Di certo tanti altri, difficile quantificarli, sono andati a votare nella lunga maratona – tre giorni, con l’Autorità nazionale per le elezioni (Nea) che mercoledì ha esteso di un’altra ora l’apertura dei seggi, come ci fossero file da smaltire – dietro le pressioni governative e filo-governative: minacce (processi e multe paventati dalla Nea, ma anche il taglio delle pensioni, come sarebbe accaduto agli ex dipendenti della EgyptAir, e l’obbligo per i dipendenti pubblici di mostrare il dito sporco di inchiostro) ma soprattutto regalie di ogni tipo, pacchi di cibo, qualche dollaro, sospensione delle tasse agli universitari, donazioni alle chiese, promesse di pellegrinaggi gratis alla Mecca e di costruzione di reti fognarie nei villaggi più marginalizzati. Per aver scritto dei «regali» ai votanti ieri la Procura generale ha denunciato il quotidiano indipendente Al Masry Al Youm.

Ora è tempo di pensare al dopo, la battaglia politica di al-Sisi inizia adesso. Si parla da mesi di rimaneggiamenti della costituzione: l’obiettivo sarebbe l’eliminazione del limite di due mandati. Uno «stile-Mubarak» per cui si deve preparare il terreno: annullare ogni spazio di opposizione.

L’ex generale lo fa dal 2013, restringere il raggio di azione di partiti e movimenti, arrestarne i vertici, silenziare la stampa indipendente o di opposizione. Sempre prendendo spunto dal predecessore: le minime aperture concesse negli ultimi anni di dittatura permisero l’emersione di un nuovo attivismo, di una stampa semi-libera, di uno spazio di dibattito che trovò la sua massima espressione il 25 gennaio 2011 in piazza Tahrir.

Al-Sisi vuole evitare lo stesso errore e calpesta ogni forma di dissenso prima che possa maturare. Ma una simile politica rischia di farsi boomerang: a differenza di Mubarak, non gode di un partito radicato con reti clientelari e alleanze di comodo, piuttosto fa leva su forze armate e polizia. Ma anche lì il regime non è monolitico e l’eliminazione dalla corsa di due esponenti dei militari (Anan e Shafiq) dimostra come non tutto l’esercito sia al fianco di al-Sisi.

FONTE: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO



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