In appello sentenza ribaltata: tutti assolti per i morti di amianto all’Olivetti

In appello sentenza ribaltata: tutti assolti per i morti di amianto all’Olivetti

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TORINO. Tutto capovolto. La Corte d’appello di Torino, presieduta da Flavia Nasi, ha assolto tutti gli imputati del processo per le morti da amianto alla Olivetti di Ivrea. Per i giudici «il fatto non sussiste». In primo grado fra i condannati c’erano i fratelli Carlo e Franco De Benedetti, ex massimi dirigenti dell’azienda informatica, ai quali, nel 2016, fu inflitta una pesante condanna di 5 anni e 2 mesi per omicidio colposo e lesioni. E c’era anche l’ex ministro Corrado Passera, condannato in primo grado a un anno e 11 mesi di reclusione. «Siamo stupiti e amareggiati, un colpo di spugna così non ce lo aspettavamo – ha detto a caldo Federico Bellono, segretario generale della Fiom di Torino – leggeremo le motivazioni ma il messaggio è comunque devastante, perché decine di lavoratori sono morti per l’esposizione all’amianto e non hanno avuto giustizia».

Il processo nasce da un’inchiesta avviata dalla procura di Ivrea nel novembre 2013 che riguardava i decessi per mesotelioma di alcuni ex operai morti tra il 2008 e il 2013. A Ivrea, dove l’Olivetti resta un simbolo nel pantheon della città, il tribunale aveva condannato gli imputati. A Torino, la sentenza non è stata confermata. L’appello si era aperto il 7 febbraio scorso con un colpo di scena. La Procura generale aveva consegnato alla Corte e alle difese degli imputati una documentazione, risalente al periodo compreso tra il 1978 e il 1986, ritrovata in un magazzino della Telecom di Strada Settimo, a Torino, e riferita all’acquisto di materiali utilizzati per l’assemblamento delle macchine da scrivere, fra cui il talco che – secondo la tesi dell’accusa – era contaminato d’amianto. Secondo il pg Carlo Maria Pellicano, quel talco sarebbe stato utilizzato in Olivetti anche dopo il 1981, almeno fino al 1986, diversamente da come affermato dalle difese degli imputati. Un elemento che, però, la Corte non ha ritenuto utile per una condanna.
Sarebbe stata la controversia scientifica sul tema del cosiddetto «effetto acceleratore» nelle malattie provocate dall’amianto a far cadere le accuse contro gli imputati. La tesi della difesa è che gli imputati non hanno colpe per le malattie che colpirono i lavoratori: l’esposizione all’amianto risalirebbe agli anni Sessanta e a essere processati sono stati i vertici che si insediarono a partire dal 1978. Secondo alcuni scienziati a essere decisivi per lo sviluppo della patologia sono i primi due anni. Altri però sostengono che esiste un «effetto acceleratore» che vale anche per le epoche successive: se è così, il dirigente diventa colpevole. Il problema è che l’argomento «effetto acceleratore» resta controverso. La vicenda non è conclusa.
«Finché non saranno depositate le motivazioni non sapremo il perché di questa sentenza. Ma se emergeranno dei profili per l’impugnazione, la impugneremo. E daremo battaglia», ha sottolineato il pg Pellicano, uno dei tre magistrati che hanno sostenuto la pubblica accusa. «Per ora – ha concluso – noi e la difesa siamo sull’1-1». Soddisfatto Tomaso Pisapia, legale di Carlo De Benedetti: «I giudici d’appello sono stati molto coraggiosi nel distruggere una sentenza di primo grado che era profondamente ingiusta».
L’amarezza a Ivrea è alta: la sensazione è che quelle del Canavese siano state considerate «morti di serie B» rispetto ad altri procedimenti giudiziari molto simili. «Siamo tutti molto sorpresi. Nessuno se lo aspettava», ha dichiarato il sindaco di Ivrea, Carlo Della Pepa, dopo la sentenza. «Sono due sentenze che mi lasciano sbalordito perché vanno l’una in contraddizione dell’altra». Per Bellono della Fiom ai giudici di Torino è forse «mancato il coraggio» dopo la sentenza di primo grado, in tribunale a Ivrea, che, invece, aveva condannato tutti gli imputati. «Ovviamente questa tragica vicenda non può chiudersi in questo modo – ha aggiunto il sindacalista – altri procedimenti sono ai nastri di partenza: le famiglie delle vittime non meritano una tale scandalosa impunità».

FONTE: Mauro Ravarino, IL MANIFESTO



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