Il dialogo tra le Coree. Kim Jong-un scomodo ma indispensabile

by Bernardo Valli | 30 Aprile 2018 8:40

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A Panmunjom, nel 1953, gli Stati Uniti firmarono un armistizio che mise fine alla prima guerra non vinta della loro storia. Una guerra pareggiata, poiché finì più o meno da dove era cominciata: il Nord fallì nel tentativo di occupare militarmente il Sud, ma, grazie all’intervento armato cinese, rimase comunista; e il Sud restò sotto l’ombrello americano. Per Washington quella coreana è una partita incompiuta. Diciannove anni dopo l’ armistizio di Panmunjom gli Usa si ritirarono dal Vietnam: e quella fu la loro prima guerra perduta. Durante le varie volte che sono stato sul trentottesimo paralello, lungo il quale scorre la vecchia linea d’armistizio, gli ufficiali svizzeri che la controllavano formalmente, in quanto rappresentanti di un paese neutrale, si lamentavano per l’assordante rumore degli altoparlanti del Nord che emettevano giorno e notte le note ottimistiche di un inno marziale.

 

Note puntualmente interrotte da una voce tonante che recitava slogan osannanti Kim Il- sung e quando Kim Il- sung morì, il figlio suo erede Kim Jong- il. Quella eterna musica era un tormento tale che gli svizzeri, tra i quali un generale (nominato apposta, a titolo eccezionale, perché quel grado non esiste nell’esercito elvetico) tenevano chiuse le finestre anche al mattino in piena estate. Quel suono gracchiante dei dischi usati creava un’atmosfera sinistra, ancor più sinistra quando una foschia ammantava la zona smilitarizzata, a Nord della quale, lungo il parallelo, erano dispiegati 650 mila soldati per una profondità di cento chilometri; e a Sud ce n’erano altrettanti, ma più diluiti sul territorio della repubblica meridionale. E in prima linea c’erano trentaseimila militari americani. Questi erano gli effettivi schierati vent’anni fa. La situazione è senz’altro cambiata e anche la musica sarà meno aggressiva, gli altoparlanti rinnovati gracchieranno meno e faranno pause più lunghe. Questi dettagli non erano insignificanti, perché i dispetti lungo quella frontiera provvisoria, ma intoccabile da sessantacinque anni, rivelavano la qualità dei rapporti tra le due Coree. L’incontro tra i due presidenti, il nordista Kim Jong- un e il sudista Moon Jae- in, proprio a Panmunjom, deve avere ammorbidito la situazione, rispetto a quella degli ultimi mesi arroventata dagli esperimenti nucleari apertamente provocatori nel Nord.

La Corea del Nord, ultimo feudo comunista stalinista, pone in termini strategici seri problemi. Per la Cina è un vicino scomodo ma indispensabile: se si arrivasse a una riunificazione gestita dal Sud, in seguito a una resa del Nord, gli americani arriverebbero al confine della Repubblica popolare. Per il Giappone la decomposizione del Nord significherebbe un’ondata di profughi sulle sue coste. Per la Corea del Sud benestante assorbire la Corea del Nord sarebbe un’operazione estremamente costosa, ed anche difficile per l’integrazione, il riciclaggio di una popolazione che da decenni vive in un altro pianeta. Rovesciare l’equazione è inutile perché una riunificazione gestita dal Nord, in seguito a una resa del Sud, non è pensabile. Come non era pensabile una riunificazione tedesca alla rovescia rispetto a quella avvenuta dopo la caduta del Muro in Germania.

Quello appena avvenuto a Panmunjom è il terzo vertice Nord- Sud. Ho seguito il primo, nel 2000, che si tenne a Pyongyang. Kim Dae- jung, rappresentante del Sud, andò nella capitale del Nord a incontrare Kim Jong- il. Fu un avvenimento eccezionale. Non ne uscì una pace ma fu avviata una collaborazione attraverso vari progetti economici e lo scambio di visite tra membri di famiglie divise. Di fatto si aprì uno spiraglio nei rapporti, fino allora rigidi o inesistenti, tra le due popolazioni. Nel 2007, durante il secondo vertice, furono varate quarantotto iniziative, ma non tutte furono realizzate perché a Seul arrivò poi al potere un presidente conservatore. Questa volta si è parlato di un disarmo progressivo, e si è accennato a un incontro tra i firmatari dell’armistizio del 1953 ( Usa, Cina, Corea del Nord), ancora in vigore, poiché non è mai stato raggiunto un trattato di pace. E questo lascia le due repubbliche del Nord e del Sud ufficialmente in stato di guerra. Una proclamazione della pace non modificherebbe per gli Stati Uniti il verdetto della guerra pareggiata, ma completerebbe un capitolo di storia rimasto incompiuto.

È la prima volta che Kim Jong- un partecipa a un incontro al vertice, essendo succeduto al padre Kim Jong- il, morto nel 2012. I membri della dinastia dei Kim presentano tratti di carattere comuni. Ho conosciuto il capostipite, Kim Il- sung, nonno del presidente attuale, nel 1980. Meglio dire incontrato. Ho cenato in un tavolo accanto al suo. Ma non ho potuto scambiare una sola parola. Ero un cronista di un paese capitalista, ed era già molto, all’epoca, poter mettere piede nella Corea del Nord. Aveva imposto la mia presenza, e quella di altri colleghi, Enrico Berlinguer, allora segretario di un partito comunista occidentale che aveva buoni rapporti con i comunisti nordcoreani. La ragione era che entrambi si dichiaravano equidistanti da Mosca e da Pechino, le grandi capitali comuniste in aperta tenzone ormai da anni. Dopo una visita in Cina, Berlinguer aveva accettato un invito di Kim Il- sung a passare qualche giorno nella sua capitale, quasi inaccessibile a stranieri non comunisti. La condizione posta da Berlinguer era che con lui potessero recarsi a Pyongyang tutti i giornalisti italiani, senza distinzione, che lo avevano seguito nella Repubblica popolare.

L’arrivo a Pyongyang fu protocollare. Donne ben allineate, come soldati, ci accolsero alla discesa dell’aereo agitando mazzi di fiori in plastica con movimenti disciplinati. E lungo il percorso, diretti in città, ci imbattemmo in altre donne con gli stessi fiori, e con abiti uguali come divise. Le finestre delle case avevano le stesse tende, accostate con precisione geometrica. Non un passante. In alcuni cantieri bande musicali suonavano con l’evidente intenzione di allietare i lavoratori, che ci salutarono agitando le braccia. Sul canale che scorreva sotto le finestre delle nostre camere d’albergo apparivano a ritmi regolari sciatori trascinati da motoscafi. Anche loro agitavano un braccio in segno di saluto. Il centro della capitale sembrava un grande studio cinematografico. La visita si svolse in un’atmosfera surreale. Il palazzo di Kim Il- sung aveva scale mobili, e all’ingresso di ogni salone c’erano ragazze con panieri di sigarette. Nella sala da pranzo c’era un palcoscenico, sul quale un coro intonò in nostro onore Bella Ciao. Kim Il- sung era di una cordialità rumorosa. Era loquace. Parlava di sé e della sua rivoluzione, e alle domande rispondeva con slogan. Era un presidente temuto ma anche un eroe nazionale, perché era stato il capo della resistenza nella guerra contro i giapponesi. Aveva una grande ciste sul collo, che non appariva nelle foto ufficiali. Nello spazio riservatoci nella capitale non c’era alcun segno delle gravi difficoltà economiche che affliggevano il paese.

Fonte: Bernardo Valli, LA REPUBBLICA[1]

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  1. LA REPUBBLICA: http://www.repubblica.it/

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