Intervista a Marirosa Iannelli. Beni vitali, ma non più comuni. I predatori d’acqua e di terra

by a cura di Alberto Zoratti, dal 15° Rapporto sui diritti globali | 2 Aprile 2018 7:34

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Il fenomeno del land grabbing, l’accaparramento di terreni agricoli, coinvolge almeno 62 Paesi espropriati e 41 Paesi accaparratori. Colpisce, in particolare, i Paesi in via di sviluppo, dove gli effetti risultano nefasti sul piano dei diritti umani, della sicurezza alimentare, dei mezzi di sussistenza rurali. Parte di esso è anche il meno noto water grabbing, dove «attori potenti – pubblici o privati – sono in grado di prendere il controllo o deviare a proprio vantaggio risorse idriche preziose, sottraendole a comunità locali o intere nazioni la cui sussistenza si basa proprio su quelle stesse risorse e quegli stessi ecosistemi che vengono depredati». L’acqua, da diritto umano, viene così fatta diventare un bene privato, una merce sul mercato e i suoi diritti di sfruttamento vengono commercializzati e scambiati sui mercati finanziari. Ne parla qui Marirosa Iannelli, advocacy officer su Land and Water per l’ONG italiana COSPE e coautrice del progetto Watergrabbing.

 

 

Rapporto sui Diritti Globali: Negli ultimi anni si è sentito molto parlare del fenomeno del land grabbing, nello specifico quando i governi e/o le multinazionali straniere espropriano i terreni alle comunità per permettere la coltivazione di monocolture, di biofuels o per gli allevamenti intensivi. Ma spesso quando si espropria la terra, ci si accaparra anche dell’acqua, fenomeno molto meno conosciuto. Si può parlare quindi anche di water grabbing?

Marirosa Iannelli: Negli ultimi anni vari attori, dai Governi alle grandi aziende nazionali e straniere, al settore della finanza, hanno dato il via a una effettiva appropriazione su scala mondiale dei terreni agricoli, in particolare nei Paesi in via di sviluppo. Questo processo è caratterizzato da investimenti su larga scala per lo sviluppo rurale, che spesso vano a scarso beneficio delle popolazioni, favorendo invece stakeholder delle grandi corporation dell’agrobusiness.

È infatti la nuova corsa all’accaparramento di terra, meglio conosciuta come fenomeno del land grabbing che coinvolge almeno 62 Paesi grabbed e 41 Paesi grabbers per cui l’accesso, l’uso e il diritto alla terra vengono controllati e gestiti in maniera impropria, provocando effetti negativi sui diritti umani, sulla sicurezza alimentare locale, sui mezzi di sussistenza rurali e sui territori. In relazione all’accaparramento della terra e delle risorse energetiche, una delle più rilevanti forme di appropriazione è quella dell’acqua, finalizzata a “dissetare” le mega proprietà acquisite.

Secondo lo studio del Transnational Institute, The Global Water Grab, con l’espressione water grabbing, o “accaparramento dell’acqua”, ci si riferisce a situazioni in cui attori potenti – pubblici o privati – sono in grado di prendere il controllo o deviare a proprio vantaggio risorse idriche preziose, sottraendole a comunità locali o intere nazioni la cui sussistenza si basa proprio su quelle stesse risorse e quegli stessi ecosistemi che vengono depredati.

Da bene comune liberamente accessibile l’acqua si trasforma in bene privato per cui bisogna negoziare ed essere disposti a pagare. I diritti di sfruttamento o concessione vengono commercializzati e scambiati sui mercati finanziari, come avviene in Cile, dove è letteralmente possibile acquistare i fiumi o le sorgenti o in Indonesia, Brasile e Filippine, le nazioni con più migliaia di ettari di terre cedute al di fuori del continente africano.

Dopo i processi di mercificazione (passaggio da bene comune a bene economico), di liberalizzazione e privatizzazione (apertura al mercato e alle imprese private della gestione), la finanziarizzazione punta alla trasformazione di una risorsa naturale liberamente fruibile, in asset finanziari, che possono essere scambiate nelle principali piazze azionarie globali. Ecco perché il water grabbing rappresenta uno dei processi più diffusi di appropriazione, privatizzazione, depauperamento, commercializzazione e finanziarizzazione di terreni, risorse idriche e risorse naturali.

 

RDG: Mercificazione, finanziarizzazione, privatizzazione: in una situazione così complessa quando possiamo parlare effettivamente di forme di water grabbing?

MI: I fenomeni riconducibili a casi di water grabbing sono estremamente variegati e numerosi. Il dirottamento dell’acqua necessaria alle colture locali che garantiscono il sostentamento e la sovranità alimentare delle popolazioni residenti, per favorire invece l’irrigazione di colture da esportazione, caratterizzate da un’impronta idrica non sostenibile rispetto all’ecosistema in cui si inseriscono (come per esempio accade in Swaziland con la canna da zucchero); lo sfruttamento insostenibile dell’acqua per progetti di estrazione mineraria (fra cui si annovera la pratica del fracking per l’estrazione del gas di scisto); la trasformazione in senso privatistico e non partecipativo dei sistemi di gestione delle acque e degli ecosistemi (fra cui bacini fluviali, acquedotti, impianti di distribuzione e depurazione); lo sbarramento dei fiumi e il convogliamento dell’acqua necessaria al sostentamento delle popolazioni locali all’interno di bacini per l’alimentazione dighe, insostenibili dal punto di vista ambientale, destinate alla produzione e vendita di energia elettrica.

Analizzando la relazione tra land e water grabbing vediamo che i Paesi maggiormente colpiti sono il Gabon, la Repubblica Democratica del Congo, il Sudan /Sud Sudan, rispettivamente con 4.450, 2.380 e 1.850 mq di acqua pro capite sottratta annualmente attraverso l’acquisizione di terre.

Gli effetti di questo accaparramento sono devastanti. Famiglie scacciate dai loro villaggi per fare spazio a mega dighe, privatizzazione delle fonti idriche, inquinamento dell’acqua per scopi industriali che beneficiano pochi e danneggiano gli ecosistemi, controllo delle fonti idriche da parte di forze militari per limitare lo sviluppo.

 

RDG: Oltre ai casi legati all’agricoltura intensiva/esproprio di terreni, quali sono i casi più eclatanti di water grabbing nel mondo? E soprattutto ci sono degli esempi che possano chiarire meglio un fenomeno così ampio e così poco analizzato?

MI: Oltre ai Paesi sopra citati, tra alcuni esempi di water grabbing più impattanti troviamo il caso dell’Etiopia, che per sviluppare l’economia e aumentare l’accesso alla rete elettrica che è tra i più bassi del pianeta, negli anni Ottanta ha approvato la costruzione di una serie di grandi dighe idroelettriche. Due di queste, la Gibe III (parte di una cascata idroelettrica composta da cinque sbarramenti) e l’imponente Grand Ethiopian Renaissance Dam (6.450 megawatt), una completata, l’altra in costruzione, triplicheranno da sole la produzione di energia del Paese. Turkana, supporta circa 350.000 persone, ricevendo più del 90% delle sue acque dal fiume Omo. Centinaia di migliaia di persone lungo l’Omo sono state direttamente colpite dalla diga e dalle colture, con decine di migliaia rilocalizzate in cinque new town e decine di villaggi agricoli intorno alle piantagioni.

In Ghana, nel 2006, grazie a un finanziamento della Banca Mondiale di 120 milioni di dollari per la privatizzazione delle risorse idriche, il Paese ha sperimentato per cinque anni un disastroso progetto di gestione pubblico-privata tra la Ghana Water Company di gestione statale e la multinazionale olandese-sudafricana Aqua Vitens Rand Ltd. Hanno attivato un sistema pre-paid water, una carta prepagata ricaricabile necessaria per acquistare l’acqua. Questo sistema ha escluso dal servizio di accesso chiunque non avesse avuto i soldi per poter pagare in anticipo ciò che consumava, impedendo a priori l’erogazione dell’acqua alle famiglie più indigenti. Intorno allo scadere dell’accordo, nel 2011, si sono susseguite numerose proteste della società civile, in tumulto sia per lo spreco di acqua dovuto ai sistemi idrici non ammodernati – circa il 50% di acqua nei condotti veniva dispersa – sia per il costo delle tariffe, aumentate nel quinquennio dell’80%.

In Sud Africa le miniere sono un settore chiave per il Paese, che da solo impiega il 10,5% del totale dell’acqua disponibile. Una delle conseguenze delle miniere è il drenaggio acido, un composto di sostanze tossiche disciolte dall’acqua impiegata per l’estrazione o dalle infiltrazioni nelle miniere in disuso. Il settore minerario più impattante, in termini idrici e ambientali, è il carbone. Richiede ingenti quantità d’acqua sia nelle miniere che negli impianti termoelettrici, dove l’acqua è usata per il raffreddamento del vapore che esce dalle turbine. Nonostante i tremendi impatti sull’acqua e in termini di emissioni, il Paese sta investendo grandemente nelle centrali a carbone.

 

RDG: Accaparramento e diritto umano all’acqua: quanto influisce la legislazione nel potenziale water grabbing da parte di governi e attori privati nei Paesi più poveri?

MI: Nel 2004 l’UNDP, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, con il Rapporto Water as a Human Right?, per la prima volta si poneva la questione dell’accesso all’acqua come diritto. «Riconoscere formalmente l’acqua come diritto umano, ed esprimere la volontà di dare un significato e una concretezza a questo diritto, potrebbe essere una via per incoraggiare la comunità internazionale […] per soddisfare i bisogni umani fondamentali e per completare gli Obiettivi del Millennio».

Nel 2010 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che garantisce l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari tra i diritti umani fondamentali. La storica risoluzione, su mozione presentata da Evo Morales Ayma, presidente della Bolivia, e da una trentina di altri Paesi, sancisce che «l’acqua potabile e i servizi igienico-sanitari sono un diritto umano essenziale per il pieno godimento del diritto alla vita e di tutti gli altri diritti umani». Eppure oggi questo diritto non viene rispettato e tutelato attivamente dagli Stati membri.

Nonostante oltre il 75% dei Paesi abbia riconosciuto l’acqua come diritto umano e il 67% abbia riconosciuto i servizi igienico-sanitari come tale, oggi un numero elevato di Costituzioni locali ancora non prevede il diritto di accesso a risorse e infrastrutture adeguate. Non si prevede un quantitativo minimo di acqua potabile gratuita per le fasce di popolazione più svantaggiate dei Paesi economicamente più deboli, ma anzi si favoriscono le misure e gli accordi commerciali per un ampliamento della privatizzazione dei servizi di gestione dell’acqua.

Secondo la Commissione Rodotà, l’acqua (insieme a fiumi, torrenti, sorgenti, laghi) è un bene comune e come tale «esprime utilità all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona». L’assenza di un’applicazione adeguata del sistema legislativo a livello internazionale e nazionale basato sulla corretta interpretazione del diritto, sta continuando a favorire direttamente e indirettamente l’accaparramento idrico nel mondo, giocando sui forti disequilibri economici dei Paesi e spingendo molto anche sul consumo di acqua in bottiglia per accrescere i profitti delle multinazionali del settore. Solo negli Stati Uniti, per esempio, nel 2015 sono stati imbottigliati oltre 44 miliardi di litri di acqua, con un incremento di oltre 11 miliardi di litri dal 2007 per una spesa che supera i 14 miliardi di dollari . La quantità di acqua in bottiglia globale ha raggiunto, nel 2016, la cifra astronomica di 389 miliardi di litri.

 

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Marirosa Iannelli: è PhD candidate all’Università degli Studi di Genova su cambiamenti climatici e acqua; è advocacy officer su Land and Water per l’ONG italiana Cospe, per conto della quale segue da diversi anni le Conferenze delle Parti ONU sul cambiamento climatico e i lavori del Civil Society Dialogue alla DG Trade della Commissione Europea, per analizzare gli intrecci tra commercio internazionale, mutamento climatico e acqua. È ideatrice, assieme al giornalista Emanuele Bompan, del progetto Watergrabbing (http://www.watergrabbing.it) e coautrice di Watergrabbing – An atlas of water, pubblicazione, unica nel suo genere, che ha l’obiettivo di fornire un quadro aggiornato sulla situazione idrica mondiale.

 

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Qui la registrazione di Radio Radicale della presentazione del 15° Rapporto a Torino, il 31 gennaio 2018[13]

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Qui l’articolo di Sergio Segio “L’apocalisse e il cambiamento possibile”, da Appunti n. 23, 1/2018[15]

 

 

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