CITTÀ NO OIL

CITTÀ NO OIL

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Utilizzo di energie provenienti da fonti rinnovabili, risparmio energetico ed efficienza energetica: un movimento diffuso in ogni angolo del mondo, a cominciare dai Paesi del Nord del mondo (i più responsabili dei cambiamenti climatici in corso), sembra aver scelto le amministrazioni locali per un cambiamento epocale, ribaltare le politiche energetiche. Le iniziative “locali” per ridurre drasticamente e nel giro di poco tempo l’uso a grande scala delle fonti fossili, da molti sono definite come NIMBY, acronimo inglese per Not In My Back Yard (letteralmente “Non nel mio cortile”), ma ovviamente non è così. Una giunta e una comunità territoriale hanno la possibilità di controllare e di incidere soltanto su territorio determinato, ma è lì che si orientano le attività economiche e si creano le relazioni sociali. Se i governi nazionali si ostinano a fare poco o nulla in quella direzione, allora l’intervento locale è importantissimo. Ovunque c’è sempre più consapevolezza nel fatto che se “tutti” facessero cose simili, il messaggio prima o poi arriverà: il tempo dell’espansione fossile di “drill baby drill”, slogan caro ai politici (statunitensi) pro trivelle, di qualsiasi angolo del mondo è finito.

 

Benvenuti a Auckland

La sua area metropolitana è la più grande e più popolosa della Nuova Zelanda con oltre 1,4 milioni di abitanti: ad Auckland, nota per il suo grande porto (grazie alla sua posizione sulle rotte transpacifiche) e per l’origine vulcanica di tutta l’area metropolitana, in aprile (2017) il consiglio cittadino ha votato una risoluzione per molti sorprendente, secondo la quale la città ritirerà tutti gli investimenti nell’industria fossile (petrolio, gas e carbone). “La decisione viene dal Finance and Performance Committee della città. Si tratta di quindici milioni di dollari. Pochi, tanti? Sono il 100% degli investimenti della città in quel tipo di industria” (D’Orsogna, 2017 a).

Dietro questa decisione c’è un grande lavoro di informazione e di lotte promosso in basso, da molti anni, dai cittadini. E cosi, pian piano l’opinione pubblica ha messo pressione sui politici chiedendo loro di essere coerenti. Un’altra ragione che ha certamente condizionato la scelta dell’amministrazione cittadina è stata la vicinanza alle diverse isole del Pacifico che sprofondano, a cominciare dal meraviglioso arcipelago di Kiribati, a causa dell’innalzamento del livello dell’oceano, conseguenza dell’utilizzo delle fonti fossili e del relativo aumento della temperatura della terra (oltre centomila persone rischiano un esodo forzato, molti abitanti dell’arcipelago hanno già cominciato a scappare verso le isole Fiji). Insomma, quello di Auckland vuole essere anche un segno di solidarietà verso i residenti di Kiribati, delle isole Marshall e di altri arcipelaghi.

Ma la notizia più interessante, in realtà, è che anche altre città hanno deciso di disinvestire dalle fonti fossili: tra le più grandi, Parigi, San Francisco, Melbourne, Seattle, Berlino, Copenaghen, Stoccolma e Sydney.

 

Ventisette città statunitensi

In questo scenario, un approfondimento lo meritano sicuramente gli Stati uniti, dove siamo arrivati già a ventisette città medio-grandi che hanno dichiarato di lavorare per arrivare al 100% di energia rinnovabile nei prossimi anni. Si tratta di una mobilitazione importante che sembra in grado di contrastare anche le scelte contrarie di Donald Trump. che ad esempio ha deciso di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul clima di Parigi, firmato nel 2015 da 195 Paesi per ridurre le emissioni di gas serra.

Tra le ultime città “no oil” Atlanta, che il Primo maggio 2017 ha deciso di arrivare alla totalità della sua energia dal sole e dal vento. Questo significa che tutti gli uffici e le suole pubbliche saranno petrolio-free entro il 2025, mentre se si include tutta la comunità residenziale, l’obiettivo per il 100% green è per dieci anni dopo, il 2035.

«La legge è stata introdotta da Kwanza Hall, consigliere comunale. Dice che con questo obiettivo arriveranno lavori, aria pulita e costi bassi dell’elettricità. Agli scettici risponde: nessuno pensava che ci saremmo mai staccati dai telefoni fissi o dai computer giganteschi, e invece, guarda qui che abbiamo smartphone che fanno tutto o quasi, quello che un tempo si faceva con una infrastruttura molto più ingombrante… Atlanta è la città più grande e la capitale della Georgia. Si aggiunge a San Diego, Salt Lake City, Chicago e San Francisco che hanno lo stesso obiettivo. E anche se Trump non ci sente, alla fine saranno i sindaci, e la gente dal basso a portare al trionfo delle rinnovabili» (D’Orsogna, 2017 b).

Quello che accade ad Atlanta e in altre città statunitensi è possibile perché milioni di persone hanno cominciato a mettere in discussione i propri stili di vita e a fare pressioni sulle amministrazioni locali, ma anche perché ovunque le rinnovabili portano lavoro, stabilizzano i prezzi, puliscono l’aria e sono un modo per combattere sul serio i cambiamenti climatici provocati dall’attività umana.

 

Il caso di Portland

Qualche mese prima di Atlanta è stata Portland, la città più grande dell’Oregon (oltre mezzo milione di abitanti, 2,2 milioni considerando l’intera area metropolitana), a rifiutare le infrastrutture fossili. «Il 14 dicembre 2016 l’amministrazione locale ha infatti approvato una risoluzione in cui la costruzione di nuove infrastrutture fossili – impianti di stoccaggio, trasporto e lavorazione di derivati da petrolio, gas e carbone – è stata vietata a partire dal gennaio 2017. Le infrastrutture esistenti se le tengono, ma non se ne potranno costruire di nuove, e anzi, quelle esistenti non potranno nemmeno allargarsi. È stata la prima volta che una città statunitense ha approvato un progetto simile e di così ampio respiro. A Portland ci sono undici terminali di stoccaggio e lavorazione di prodotti fossili: dieci depositi petroliferi e uno di gas liquido naturale» (D’Orsogna, 2016 a).

Il provvedimento normativo, festeggiato da comitati e gruppi ambientalisti, ha creato una zona urbana definita Bulk Fossil Fuel Terminals, e ha vietato per il futuro la costruzione di nuove opere (infrastrutture, oleodotti, ferrovie…) collegate al trasporto di combustibili fossili. Negli ultimi mesi, il sindaco Charlie Hales lo ha ripetuto più volte: ciò che è stato fatto a Portland lo si può fare in tutto il mondo, in qualsiasi momento.

Di certo in tanti, spesso lontano dalle attenzioni dei “grandi” media, si muovono: la città di Vancouver a Washington State ha vietato nuovi depositi petroliferi sul territorio comunale, la città di Oakland in California ha deciso di fare a meno di tutte le nuove infrastrutture di carbone e San Francisco ha vietato le trivelle su suo ampio territorio. «L’idea è che tutte assieme queste città possano creare un “muro verde” sulla West Coast statunitense e passare un messaggio potente ai petrolieri, ai politici a livello nazionale» (D’Orsogna, 2016 a).

 

La cooperativa del sole di Brooklyn

Piuttosto interessante è anche il caso di Brooklyn, la più popolosa delle cinque suddivisioni amministrative di New York. Qui è stato avviato un grande esperimento: sono stati messi dei pannelli solari sui tetti di molti edifici che hanno formato una sorta di cooperativa del sole a New York. «Si chiama Brooklyn Microgrid e hanno iniziato con una cinquantina di famiglie di residenti e negozi. L’idea è che tutti possano utilizzare l’energia del proprio tetto, ma quando finisce si può comprarla dal proprio vicino, usando un sistema di scambio peer-to-peer, non dissimile da Bitcoin o usando a volte Paypal. Questo sistema di vendita diretta elimina completamente il gestore di elettricità e le sue tariffe e tasse. L’idea è che questa Brooklyn Microgrid diventi autosufficiente anche se per ora c’è la rete tradizionale dietro in caso di guasti» (D’Orsogna, 2015 a).

Il progetto è portato avanti da LO3 Energy insieme a Siemens, con la promessa di creare sistemi decentralizzati che possano lavorare in modo autonomo o magari con la rete elettrica. I tetti migliori vengono cercati tramite Google Earth e poi quelli di LO3 vanno a casa a chiedere ai residenti se vogliono partecipare al progetto.

Intanto in Germania una delle più grandi cooperative del sole ha già 8.000 famiglie collegate. In Australia, un progetto simile esiste già a Perth. Ma dove queste tecnologie sono già più o meno vincenti è nel sud del mondo, dove la rete “normale” a volte non esiste ancora e dove questi progetti di cooperative del sole sono spesso l’unica e la più facile soluzione per portare l’energia nelle case delle persone. Per esempio in Bangladesh, dove sessantacinque milioni di persone non hanno accesso all’elettricità e dove allo stesso tempo si moltiplicano le fabbriche controllate da imprese multinazionali (in particolare del tessile), queste cooperative del sole cominciano a prendere piede e il metodo di compravendita è tramite app sui telefonini.

 

Il primo Paese libero da petrolio

In questo universo in grande trasformazione è europeo il Paese che vuole diventare il primo del mondo totalmente fossil-free. Parliamo della Svezia. L’ha annunciato a fine 2006 il primo ministro Stefan Löfven alle Nazioni Unite. Soltanto per il 2016 hanno stanziato 546 milioni di dollari per incentivare fonti non fossili nel Paese.

«In questo momento le fonti fossili generano circa il 20% dell’elettricità del Paese, il resto viene da un mix di fonti rinnovabili, in particolare dall’idroelettrico, e dal nucleare. Ma le centrali nucleari chiudono perché ormai obsolete e datate, e gli svedesi hanno deciso di non costruirne più di nuove. Sono le tre centrali di Ringhals 1 e 2 e Oskarshamn 2, la cui chiusura viene anzi anticipata. Ci si aspetta che le rinnovabili rimpiazzeranno il contributo energetico delle centrali chiuse. Non solo: in Svezia hanno già chiuso centrali a carbone e addirittura uno degli aeroporti secondari di Stoccolma, il cui sito sarà trasformato in sito residenziale per persone a basso reddito. La Chalmers University of Technology ha già annunciato mesi fa che abbonderà gli investimenti da fonti fossili» (D’Orsogna, 2015 b).

Come funzionerà la transizione al fossil-free in questo Paese di dieci milioni di persone, guidato da una coalizione fra verdi e social-democratici? Si investirà di più in solare ed eolico, ma anche in ricerca di base e in infrastrutture, contemporaneamente aumenteranno i servizi di trasporto pubblico, saranno diffusi i sistemi di isolamento termico nelle costruzioni e la rete elettrica sarà resa più efficiente per favorire il risparmio energetico. Già nel 2016 gli stanziamenti per il solare sono aumentati del 800%.

Il bisogno di una vera rivoluzione delle politiche energetiche sembra piuttosto diffuso anche tra i vicini danesi (che hanno investito come pochi nell’eolico, generando la scorsa estate addirittura il 140% della loro energia dall’eolico), mentre l’Islanda già genera quasi il 100% della sua energia dalle rinnovabili (in primis con il geotermico).

 

Dopo Fukushima tutti a Wildpoldsried

Wildpoldsried è invece una piccola città tedesca (2.600 abitanti) vicino a Monaco di Baviera. Qui nel 2011 hanno prodotto il 321% dell’energia che necessaria da rinnovabili.

«Sono partiti nel 1997, quando si decise che si dovevano costruire nuove industrie e infrastrutture senza creare debiti. La città aveva anche problemi di inondazioni e allagamenti. Nel 2000 hanno ricevuto dei fondi europei per lavorare su sistemi di prevenzione per le inondazioni, e la giunta decise che sarebbe stato utile includere un sistema naturale di assorbimento dell’acqua usando le lagune locali. Queste avrebbero filtrato e poi rilasciato l’acqua piovana in modo controllato nei ruscelli locali. Sono partiti cosi, e poi l’idea di fare tutto “naturale” non si è fermata e nel giro di pochi anni hanno rivestito gli edifici comunali con pannelli solari e installato pale eoliche. Centonovanta famiglie si sono installate i pannelli sui tetti e la città ha creato dei mini impianti idroelettrici» (D’Orsogna, 2014 a).

E cosi, non solo Wildpoldsried ha prodotto molta energia in più, ma ha anche guadagnato 4 milioni di euro nel distribuire l’eccesso in rete. Per questo la città è diventata meta di investitori di vario genere e ha ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali per le sue iniziative energetiche. L’amministrazione ha anche creato una iniziativa, il Wildpoldsried Innovativ Richtungsweisend (WIR-2020), per ispirare i cittadini a fare la loro parte per la protezione dell’ambiente. Inoltre, la città promuove spesso alcuni programmi per mostrare ad altri villaggi ed altre istituzioni cosa si può fare per migliorare l’efficienza energetica. Il sindaco è stato letteralmente assalito dalla stampa di mezzo mondo, specie dopo il disastro di Fukushima, su come poter trasformare in meglio le proprie comunità in modo realistico, ecologico ed efficiente.

 

I treni a vento

Il 2017 ha portato grandi novità anche in Olanda, dove dal primo gennaio tutti i treni sono alimentati dal vento. «La svolta iniziò nel 2015 quando la compagnia energetica Eneco si aggiudicò il bando per collaborare con le NS, il sistema ferroviario d’Olanda, per elettrizzare il trasporto su rotaia. Il target era di arrivare al 100% rinnovabile entro il 2018. Ma le cose sono andate meglio del previsto e sono arrivati un anno prima di quanto previsto, grazie al boom dell’energia eolica nel Paese» (D’Orsogna, 2016 h).

Per capirci, una turbina media, spinta da venti medi per un’ora, può alimentare il trasporto su treno per 120 miglia, vale a dire circa 190 chilometri. Considerando che le NS trasportano seicentomila passeggeri al giorno su circa 5.500 viaggi quotidiani, il consumo è di 1.2 miliardi di KW-ore l’anno. L’equivalente del consumo di elettricità in tutte le case della città di Amsterdam: insomma, un grande passo in avanti.

 

Bibliografia

D’Orsogna Maria Rita (2014 a), Wildpoldsried, Germania: il villaggio del 500 per cento di rinnovabili in più di quel che gli serve, in http://dorsogna.blogspot.it/2014/07/wildpoldsried-germania-il-villaggio-del.html

D’Orsogna Maria Rita (2015 a), Brooklyn: i residenti condividono l’energia dal sole dai tetti di tutti, in http://dorsogna.blogspot.it/2017/03/brooklyn-i-residenti-condividono.html

D’Orsogna Maria Rita (2015 b), La Svezia: prima nazione interamente libera dal petrolio, in http://dorsogna.blogspot.it/2015/10/la-svezia-

D’Orsogna Maria Rita (2016 a), Portland vieta la costruzione di qualsiasi nuova infrastruttura fossile in città, in http://dorsogna.blogspot.it/2016/12/portland-vieta-la-costruzione-di.html

D’Orsogna Maria Rita (2016 b), Olanda: nel 2018 il 100 per cento dei treni correrà con il vento, in http://dorsogna.blogspot.it/2016/01/olanda-nel-2018-il-100-dei-treni.html

D’Orsogna Maria Rita (2017 a), Auckland, la città più grande della Nuova Zelanda disinveste tutti i fondi pubblici da oil, gas e carbone, in http://dorsogna.blogspot.it/2017/04/auckland-la-citta-piu-grande-della.html

D’Orsogna Maria Rita (2017 b), Atlanta, Georgia: 100 per cento rinnovabile entro il 2035, in http://dorsogna.blogspot.it/2017/05/atlanta-georgia-100-rinnovabile-entro.html

D’Orsogna Maria Rita (2017 c), Un milione di profughi del clima, “Comune-info”, in http://comune-info.net/2017/04/un-milione-profughi-del-clima, 10 aprile.

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Questo brano  fa parte del capitolo “In comune”, pubblicato nel 15° Rapporto sui diritti globali, cui ha collaborato Comune-info

 

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Riportare i diritti nel lavoro. Leggi qui la prefazione di Susanna Camusso al 15° Rapporto

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Qui notizie e lanci dell’ANSA sulla presentazione del 15° Rapporto

Qui il post di Comune-Info

Qui si può ascoltare il servizio di Radio Articolo1 curato da Simona Ciaramitaro

Qui un articolo sul Rapporto, a pag. 4 di ARCI-Report n. 37

Qui un articolo sul Rapporto, da pag. 13 di Sinistra Sindacale n. 21

Qui la registrazione di Radio Radicale della presentazione del 15° Rapporto a Torino, il 31 gennaio 2018

Qui un’intervista video a Sergio Segio e Susanna Ronconi sui temi del nuovo Rapporto

Qui l’articolo di Sergio Segio “L’apocalisse e il cambiamento possibile”, da Appunti n. 23, 1/2018



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