In Cina i gruisti si autorganizzano e scioperano

In Cina i gruisti si autorganizzano e scioperano

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«A tutti gli operatori di gru a torre, i controllori e gli operatori di ascensori che lavorano duramente, saluti! Il nostro stipendio e la nostra retribuzione sono molto al di sotto dei rischi che corriamo e dell’assoluta indispensabilità del nostro lavoro». Così esordiva la Federazione dei gruisti di Changsha in una lettera aperta fatta circolare il 25 aprile su WeChat con l’intento di indire uno sciopero settoriale per il 1 maggio.

NEI GIORNI SUCCESSIVI, l’appello avrebbe raggiunto portata virale per poi sconfinare offline con l’organizzazione di manifestazioni in 30 città attraverso 19 province della Cina.

Ogni evento ha visto la partecipazione di un numero compreso tra le centinaia e le migliaia di persone. 10mila i manifestanti soltanto a Chengdu, capoluogo del Sichuan.  Per il quotidiano statale Global Times, le richieste dei lavoratori – perlopiù migranti – includono aumenti salariali per compensare l’inflazione, pagamenti più consistenti in caso di straordinari, contratti di lavoro formali, regolare pagamento del salario su base mensile, orari di lavoro fissi e ferie retribuite, oltre al versamento dei contributi pensionistici e delle assicurazioni sociali. Si parla di portare gli attuali stipendi mensile tra i 4.000 e i 6.000 yuan (956 dollari) per 10 ore di lavoro ad almeno 7.000 yuan fino a un massimo di 9.000 yuan per i gruisti, la categoria che opera in condizioni di più estreme e senza nemmeno la possibilità di usufruire delle toilet nel momento del bisogno.

LA RISPOSTA DEL GOVERNO – sempre occhiuto quando entrano in gioco mobilitazioni di massa – non si è fatta attendere. Sulla stampa governativa la notizia degli scioperi ha trovato spazio limitato, mentre in rete l’immancabile censura ha rimosso ogni informazione indipendente. Chi ha tentato di condividere contenuti inerenti al 1 maggio si è visto convocare dai funzionari del ministero della Sicurezza dello Stato. Sforzi che non sono, tuttavia, bastati a occultare la portata storica delle proteste, trascurate persino dai media internazionali. Come spiega China Change, sito sulla società civile oltre la Muraglia, la manifestazione dei gruisti rappresenta la prima azione collettiva su scala nazionale ad aver attecchito nella Repubblica popolare da diversi decenni a questa parte. La prima in assoluto ad aver coinvolto aziende differenti sulla base di legami orizzontali e interregionali. Requisiti considerati necessari per poter cominciare a parlare di un vero e proprio «movimento operaio» in Cina.

A CIÒ SI AGGIUNGE la totale spontaneità dell’iniziativa – estranea all’intrusione di Ong e altri attori esterni -, coordinata attraverso gruppi chiusi su QQ e altre piattaforme di microblogging nel rispetto di un preciso codice di condotta interno. Non stupisce che a guidare il risveglio delle coscienze sia una delle categorie più coinvolte nello sviluppo urbanocentrico della «Nuovissima Cina»; la stessa che nel 2013 ha inscenato un raro esempio di lotta operaia nel porto di Hong Kong, modello di capitalismo su cui Pechino esercita un crescente controllo politico.

Mentre il rallentamento dell’economica e degli investimenti infrastrutturali minaccia tra i 5 e i 6 milioni di posti di lavoro, secondo China Labour Bulletin, durante le prime dieci settimane del 2018 sono stati rilevati oltre 400 scioperi, più del doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

FONTE: Alessandra Colarizi, IL MANIFESTO



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