La saga Trump-Kim e la trappola cinese

La saga Trump-Kim e la trappola cinese

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Il mondo può vivere ogni giorno sull’orlo di una crisi di nervi? Sembra il nostro destino nell’era Trump. Ora che è stato cancellato – o forse solo rinviato? – lo storico summit della pace che doveva tenersi a Singapore il 12 giugno, che cosa ci aspetta? Che l’Estremo Oriente torni ad essere il luogo dove si sfiora la terza guerra mondiale? Ricominceranno i test atomici e missilistici nordcoreani, e le minacce di “attacco preventivo” da parte degli Stati Uniti? Siamo al terzo capovolgimento nella saga Trump-Kim. Il presidente americano sul finire dell’anno scorso sbeffeggiava il suo segretario di Stato ( poi licenziato: Rex Tillerson) mandandogli a dire via Twitter: « Perdi tempo a cercar di negoziare con Ometto- Razzo, un pazzo che non esita a sterminare il suo popolo». Poi intorno al Capodanno, grazie al presidente sudcoreano Moon e alle sue Olimpiadi della Pace, il colpo di scena: volemose bene. Trump e Kim si erano scambiati manifestazioni di stima, fino all’annuncio dell’incredibile summit fra due leader che si erano promessi distruzione reciproca.

Ora si torna quasi alla casella di partenza. Quasi ma non del tutto. La lettera con cui Trump cancella l’appuntamento del 12 giugno trasuda rimpianto mescolato a minacce. Sembra scritta da un corteggiatore deluso, amareggiato e inacidito, ma ancora segretamente innamorato. La lettera di ieri con sigillo della Casa Bianca riecheggia il celeberrimo tweet «il mio bottone nucleare è più grosso del tuo » , nel passaggio in cui scrive al nordcoreano « tu parli della vostra capacità nucleare ma la nostra è talmente più massiccia e potente che prego Dio di non doverla mai usare». Poi subentra la nostalgia: «Sentivo che un meraviglioso dialogo si stava costruendo fra noi » . Infine la speranza: «Un giorno forse ci vedremo, se cambi idea non esitare a chiamarmi». Trump lavora per fare felici gli autori di satira politica.

Includendo la dimensione psichiatrica: era dai tempi di Stalin e Hitler che non si affacciavano sulla scena due egomaniaci di questa stazza. Ma allora è vero il detto di Marx: la storia prima è tragedia, poi si ripete in farsa.

Al netto dello show, nel quale sia Trump che Kim sono versati, che cos’era accaduto per passare dal primo al secondo al terzo capovolgimento? Ciascuno ha cercato di fare il furbo, sfruttando le debolezze della controparte. Il sudcoreano Moon capì che far balenare un Nobel per la Pace a Trump – “il vertice senza precedenti nella storia” – poteva solleticare l’infinita vanità del presidente americano, spingendolo verso quella smilitarizzazione che vuole la sinistra pacifista e neutralista di Seul. Il dittatore comunista di Pyongyang colse l’occasione per rifare il colpaccio di suo padre: quello che aveva promesso disarmo e ottenuto aiuti economici dall’America, per poi rinnegare ogni impegno. Kim s’infilò nella sceneggiata del summit con abilità, per estorcere il massimo da Trump e Moon (fine delle sanzioni, quattrini a palate), in cambio di qualche gesto simbolico: smantellamento di uno solo degli impianti nucleari nordcoreani, sotto la vigilanza di “giornalisti esteri” (senza facili ironie sulla nostra categoria, quello è il mestiere degli ispettori-scienziati dell’Aiea). Il cinese Xi Jinping ha manipolato tutti: a Trump ha chiesto la fine dei dazi in cambio della sua mediazione; si è preso il ruolo di garante verso la ricca Corea del Sud che vuole risucchiare nella sfera dei propri vassalli. Infine Xi ha costretto il riottoso Kim a fare ben due viaggi “a Canossa”, cioè a Pechino, dove il dittatore-nipote si era rifiutato di andare a lungo, per i sospetti su un tentato colpo di Stato ai danni di suo padre, probabilmente ordito dai cinesi. Le trame di Shakespeare, da Re Lear a Macbeth, al confronto sono banali.
Il più incosciente di tutto ciò sembrava Trump. Camminava verso il vertice come un sonnambulo sul ciglio di un burrone. Attorno a lui però cresceva l’inquietudine. Il suo neo-consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, era arciconvinto che l’appuntamento di Singapore fosse una trappola, dove Kim avrebbe incassato una fantastica legittimazione in cambio di vaghe promesse, iniziando un tortuoso negoziato a base di ricattucci, menzogne, promesse inverificabili. Alla fine ci ha pensato il vicepresidente Mike Pence a fare il lavoro sporco, con una laconica uscita in un talkshow: o Kim smantella in modo unilaterale e definitivo tutto il suo nucleare, o si espone a fare la fine di Gheddafi. Giù le maschere, e fine della commedia. Per ora.
Può darsi che al capitolo successivo si torni dalla farsa alla tragedia. Oppure che il “rimpianto amoroso” di Trump faccia leva sulla vanità dell’altro paranoico. Si accettano scommesse, ma finora il banco vincente è a Pechino.

Fonte: LA REPUBBLICA

Blue House (Republic of Korea) [Public domain or KOGL (http://www.kogl.or.kr/open/info/license_info/by.do)], via Wikimedia Commons



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