Morti di Gaza, come numeri dimenticati

Morti di Gaza, come numeri dimenticati

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Passata la reazione per la strage del 14 marzo, la routine di ‎morte e sofferenza di Gaza non fa più notizia

GERUSALEMME. Vendeva gelati e bibite fredde Hussein Abu Aweida. Alle manifestazioni ‎della Grande Marcia del Ritorno andava per guadagnare qualche soldo ‎per sopravvivere. Sulla sua vecchia bicicletta aveva fissato due ‎frigoriferi portatili e pedalando per la strade maladandate di Gaza ‎portava dolcezza e ristoro a piccoli e grandi. Un colpo sparato da un ‎tiratore scelto dell’esercito israeliano durante le dimostrazioni della ‎scorsa settimana l’ha colpito alla colonna vertebrale ed è spirato ieri ‎all’alba all’ospedale Shifa. Hussein Abu Aweida è il 116 palestinese di ‎Gaza ucciso dai militari israeliani da quando sono cominciate, lo scorso ‎‎30 marzo, le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno. Qualche ‎ora prima erano morti altri due giovani feriti, di 23 e 21 anni.

‎ Nomi e volti degli uccisi di Gaza girano sui social. L’Europa non li ‎nota. Passata la reazione per la strage del 14 marzo – circa 70 vittime tra ‎quelli uccisi subito e i feriti deceduti nei giorni successivi – la routine di ‎morte e sofferenza di Gaza non fa più notizia. E regna l’indifferenza ‎verso i motivi delle manifestazioni lungo le linee di demarcazione tra ‎Gaza e Israele. Prevale la narrazione del governo Netanyahu che ‎descrive la Grande Marcia del Ritorno come una copertura per gli ‎attacchi di Hamas. La responsabilità di tutti quei morti sarebbe solo del ‎movimento islamico anche se a sparare su manifestanti disarmati sono i ‎soldati israeliani. Anzi, la reazione di Israele è stata “moderata”, ‎spiegava qualche settimana fa alle Nazioni Unite l’ambasciatrice Usa ‎Nikki Haley.‎

‎ Anche i giudici israeliani ritengono legittima la risposta data sino ad ‎oggi dall’esercito alle manifestazioni palestinesi. La Corte Suprema ‎israeliana ha respinto all’unanimità due petizioni presentate da gruppi per ‎i diritti umani che chiedevano alle forze armate di non usare più cecchini ‎e munizioni vere contro dimostranti disarmati a Gaza. Secondo la Corte ‎quei manifestanti costituivano un pericolo reale per i soldati e i cittadini ‎israeliani. A nulla è valso il dato che quel “pericolo”, in due mesi di ‎proteste con decine di migliaia di persone, non ha causato il ferimento di ‎alcun israeliano, civile o militare. Inutili le testimonianze di alcuni delle ‎migliaia di feriti e la recente risoluzione di condanna di Israele votata dal ‎Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani. Tutto regolare, tutto lecito.

‎ Domani a Bruxelles, in occasione del Consiglio Affari Esteri, Avaaz ‎depositerà 4.500 paia di scarpe vicino alla sede della riunione, un paio di ‎calzature per ciascuna vittima di Gaza negli ultimi anni. Oggi pomeriggio ‎al Circo Massimo a Roma la campagna #CambiaGiro, in occasione della ‎tappa finale del Giro d’Italia colorerà la zona di verde, rosso, bianco e ‎nero, i colori della bandiera della Palestina, per protestare contro la ‎scelta degli organizzatori della Corsa Rosa di far partire il Giro da ‎Gerusalemme ignorando lo status internazionale della città e le ‎rivendicazioni dei palestinesi sulla zona Est occupata da Israele. ‎

FONTE: Michele Giorgio, IL MANIFESTO



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