Tutti in libertà con la riforma delle carceri? Falso!

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La riforma vista da Fedriga

Massimiliano Fedriga, neoeletto presidente del Friuli Venezia Giulia, negli studi di Matrix su Canale 5 ha dichiarato, a proposito della recente riforma dell’ordinamento penitenziario:

Parlavo prima degli svuotacarceri. Il Pd ha votato, a Camere sciolte in Commissione giustizia, il sesto svuotacarceri, lasciando libere tutte le persone condannate fino a 4 anni per qualsiasi reato e facendole accedere alle misure alternative.

Si tratta di un ritornello della campagna elettorale dell’esponente della Lega, che ha messo la sicurezza tra i temi centrali, al punto che questa stessa affermazione è stata ripetuta, con alcune variazioni, in altre occasioni (su La7, sia a Otto e mezzo sia a Omnibus). Ma è davvero come dice Fedriga?

Tutti i tipi di reati?

Nel marzo di quest’anno, in attesa della prima riunione delle Camere, il Consiglio dei ministri ha approvato, dopo il primo parere delle commissioni giustizia di Camera e Senato, lo schema di decreto sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. L’obiettivo dichiarato del decreto – che è attualmente in attesa del secondo parere parlamentare, dunque non ancora varato definitivamente – è ridurre il tasso di recidiva, che sarebbe molto più alto per chi ha scontato la pena in carcere che per coloro che hanno beneficiato di misure alternative (anche se gli unici dati, spesso citati, sono solo del 1998 e non sappiamo quanto siano affidabili).

Finalità concorrente e sicuramente urgente è anche la riduzione della popolazione carceraria italiana, che vive in condizioni di sovraffollamento. Secondo il ministero della Giustizia, il tasso di affollamento tocca oggi il 115 per cento (58.285 carcerati per una capienza di 50.619), migliorato rispetto al 2010 quando raggiunse il 151 per cento.

L’ordinamento penitenziario fissa i limiti di pena massima (anche residua) per l’accesso alle misure alternative. Misure diverse prevedono limiti diversi, che variano dai due anni per la detenzione domiciliare (salvi alcuni casi particolari), ai quattro per il cosiddetto affidamento allargato. Come spiega il dossier della Camera sullo schema di decreto legislativo, il provvedimento per la detenzione domiciliare eleva a quattro anni il limite di pena inflitta (o anche residua) entro il quale il condannato può beneficiarne. Più nello specifico, rientrano nelle misure alternative l’accesso all’affidamento in prova, ai domiciliari o alla semilibertà. Una concessione che tuttavia non è automatica, come sembra suggerire la dichiarazione di Fedriga, ma che necessariamente richiede la decisione favorevole della magistratura, a cui spetta il compito di valutare la personalità dei detenuti caso per caso.

Oltretutto, la novità non riguarda tutti i tipi di reati: ai condannati per associazione mafiosa, terrorismo, riduzione in schiavitù, tratta di persone, prostituzione minorile, violenza sessuale di gruppo (oltre a una serie di altri delitti commessi per via associativa) resta preclusa la possibilità di uscire dal carcere prima della fine della pena, a meno che non collaborino con la giustizia. Anche su questo Fedriga sbaglia.

L’armonizzazione della normativa

In che modo la riforma Orlando modificherebbe la normativa attuale? Lo schema di decreto legislativo interviene su almeno due profili: porta a quattro anni il limite per la sospensione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive (in precedenza a tre); ed estende il limite di quattro anni anche alla detenzione domiciliare. Già il decreto legge del 2013 n. 146 prevedeva infatti la possibilità di concedere al condannato il cosiddetto affidamento allargato per pene non superiori ai quattro anni. In breve, la riforma modificherebbe, da un lato, le “procedure” di accesso alle misure alternative e, dall’altro, “le modalità e i presupposti”.

A ben vedere, si tratta però di interventi che non rivoluzionano la normativa attuale, ma attuano una armonizzazione del sistema sanando due profonde contraddizioni prodotte dalla legge del 2013.

La prima incongruenza deriva dal mancato allineamento tra il limite per ottenere la sospensione dell’esecuzione e il limite per avere accesso alle misure alternative, ragione per cui i condannati a pene tra i tre e i quattro anni potrebbero accedere all’affidamento in prova solo dopo aver fatto ingresso in carcere. Si tratta di un paradosso talmente grave che ancor prima del legislatore è intervenuta la Corte costituzionale, dichiarando incostituzionale la norma che stabiliva il limite di tre anni (e non di quattro) per la sospensione dell’ordine di carcerazione.
L’altra contraddizione, causata dalla mancata uniformazione dei limiti per avere accesso alle diverse misure alternative, si traduce nel paradosso per cui è possibile per i condannati a pene tra i tre e i quattro anni accedere alla misura alternativa meno afflittiva (l’affidamento), ma non a quella più gravosa della detenzione domiciliare (applicabile oggi solo fino ai due anni).

Lo schema di decreto legislativo non crea dunque alcun effetto di “fuga” dal carcere – come invece alcuni giornali hanno riportato. Si limita a estendere il limite di quattro anni di pena alla detenzione domiciliare, razionalizzando la disciplina di accesso alle misure alternative.

Il verdetto

Il neo governatore del Friuli Venezia Giulia, pur riportando un’informazione corretta (l’estensione del limite a quattro anni, qualora la riforma venisse varata dal Governo), suggerisce un’applicazione errata della riforma dell’ordinamento penitenziario – non tutti i reati sono infatti toccati dal decreto – e non tiene conto che il limite di quattro anni era già stato previsto, per l’affidamento in prova, fin dal 2013. Inoltre lo schema di decreto riordina una normativa su cui è intervenuta di recente la Corte costituzionale, sanando alcune contraddizioni generate dal legislatore.
La dichiarazione di Fedriga non può dunque che essere FALSA.

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