Dal carcere turco di Silivri l’urlo contro l’ingiustizia di Ahmet Altan

by Chiara Cruciati | 8 Giugno 2018 12:00

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«Ecco la mia risposta al pubblico ministero. Della sua galera non mi importa niente. Continuerò a dire la verità. Ho detto la verità tutta la vita. Non ho intenzione di smettere adesso. Non sono il genere d’uomo che si lascia spaventare. Non sono il genere d’uomo che agisce per vigliaccheria e sperpera i tanti decenni che ha già vissuto per amore dei pochi anni che gli rimangono».

Il j’accuse di Ahmet Altan risuona tra le pagine di un libro dopo aver rimbombato dentro l’aula della 26/ma corte penale di Istanbul: Tre manifesti per la libertà, edito da e/o (pp. 190, euro 5, traduzione di Silvia Castoldi). Sempre per e/o è appena uscito il romanzo Come la ferita di una spada, mentre ieri sera Ahmet Altan è stato al centro del festival «Letterature», con un reading di Fabrizio Gifuni.
Tre manifesti per la libertà è l’urlo potente di un giornalista che ha fatto per tutta la vita il suo lavoro: i tre discorsi scritti nel carcere di Silivri tra giugno 2017 e febbraio 2018 e letti di fronte al procuratore che lo ha indagato e al giudice che lo ha condannato all’ergastolo aggravato.

IL FINE PENA MAI pronunciato a metà febbraio contro Ahmet e suo fratello, lo scrittore Mehmet Altan, la nota editorialista Nazli Ilicak e i giornalisti Fevzi Yazici, Sukru Tugrul Ozsengul e Yakup Simsek, è un ergastolo contro la libertà di espressione, una condanna sviscerata dai lunghi discorsi che Altan ha riversato sulla corte.
Una contro-accusa che mette sul tavolo degli imputati i «palazzi di giustizia mattatoi del diritto» e che ha una duplice natura: la propria difesa contro un atto arbitrario, trasudante tirannia, e un’ode alla giustizia, ancora viva nonostante i colpi inferti dalla Turchia del presidente Erdogan.

Con un’ironia dirompente che lascia nudo il procuratore (e il suo «mandante»), i testi sono una presa in giro dell’ottusa superficialità della bugia, della sciatteria che nell’aula di tribunale si maschera da realtà fattuale (ma senza fatti). Se non fossero le parole di un uomo condannato all’ergastolo, parrebbe di sfogliare le pagine di un romanzo distopico, un affresco kafkiano, dove la paranoia del potere si abbatte su uomini liberi con la stupidità di una legge assurda e piegata agli interessi di parte.

Altan entra dentro il significato delle parole, le analizza alla luce del sistema dello Stato di diritto calpestato, inchioda sulla carta la cristallina dimostrazione dell’invenzione di crimini mai commessi, assurdamente imputati a soggetti che nulla hanno a che vedere con il reato in oggetto: il tentato golpe del luglio 2016. Il giornalista decostruisce le presunte prove, una ad una, fino ad arrivare all’apice del sistema, la natura stessa della giustizia in uno Stato moderno: il potere giudiziario, anima dello Stato e sua primaria fonte di vita nella visione dell’autore, è moribondo. E i suoi aguzzini sono lì, ai vertici del paese, responsabili di aver abbattuto la colonna portante del sistema giudiziario, la natura del giudice come garante dell’onestà e come incarnazione della fede del popolo in quell’onestà.

NELL’OPERA di distruzione delle evanescenti prove presentate dalla procura, risibili, senza consistenza, palesemente prive di collegamento tra gli imputati e il presunto crimine, Altan giudica i giudicanti. In una rappresentazione quasi mitologica del concetto di legge, il giornalista condannato all’ergastolo si sporca le mani: della perfezione e la bellezza del concetto di giustizia, nella Turchia di oggi non restano che infezione, malattia, fetore. La giustizia si trasla nella punizione dell’«altro», dell’oppositore, del critico. Di un uomo libero che con la sua sola esistenza svela la natura dell’autoritarismo: il potere della paura e dell’umiliazione del giusto.

FONTE: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO[1]

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  1. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

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