È morta anche lei. A 85 anni, ventiquattro dei quali spesi a combattere per la verità sull’omicidio di sua figlia Ilaria e di Miran Hrovatin, i due inviati del Tg 3 uccisi in agguato a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. Romana, sposata con Giorgio Alpi, deceduto otto anni fa, Luciana Alpi era diventata l’icona di una battaglia che non è riuscita a vincere. Ma grazie alla sua ostinazione, alla sua scrupolosa verifica delle notizie che si sono susseguite in tutti questi anni, alla sua costanza nel pretendere verità dalla magistratura italiana, senza mai cedere alla rassegnazione, ha alzato il velo delle ipocrisie e delle omissioni che hanno sempre costellato un caso pieno di misteri ma al tempo stesso chiarissimo.
Afflitta da numerose patologie con cui conviveva da anni, Luciana Alpi è stata ricoverata nella clinica romana Ars Medica per sottoporsi ad una serie di controlli. « Soffriva di cuore», ci dice la sorella che l’ha assistita fino alla fine. « I medici avevano deciso di inserirle un pacemaker. Poi tutto è precipitato. Gli acciacchi e i malanni che la tormentavano si sono riaffacciati e in cinque giorni se n’è andata » . E’ spirata ieri sera alle 20,30.
Luciana non si è mai rassegnata alla morte di sua figlia Ilaria. Non aveva accettato la versione ufficiale: troppe contraddizioni, troppe lacune nelle testimonianze offerte, troppe omissioni da parte degli stessi inquirenti. Si era resa conto subito che attorno al duplice omicidio di Mogadiscio aleggiava un movente molto più grave di un semplice tentato sequestro finito nel sangue. Lo capì subito. Sin dai primi momenti, quando negarono l’autopsia sul corpo di Ilaria, quando il referto dell’esame autoptico sparì dall’incartamento ufficiale per riapparire tra le carte di un trafficante internazionale di armi. E poi le bugie che si susseguivano, i depistaggi, le tesi precostituite, le conclusioni ondivaghe delle due Commissioni parlamentari d’indagine. Luciana si rese conto che la morte di questa giovane e brillante inviata del Tg3 della Rai, assieme al suo operatore di fiducia, era stata il culmine di un’inchiesta giornalistica che avrebbe potuto mettere in seria difficoltà il governo italiano e il mondo della nostra Cooperazione. Ilaria Alpi era riuscita a seguire il filone del traffico delle armi che attraverso le navi finanziate dal nostro governo e affidate alla Somalia, comprometteva l’intera operazione Restore Hope.
La Procura di Roma, alla fine, cercò di chiudere il caso accreditando la pista del tentato sequestro. Incastrò un cittadino somalo e lo accusò, grazie alla testimonianza di un suo connazionale, di essere stato tra gli esecutori materiali del duplice omicidio. L’imputato fu condannato in via definitiva e solo recentemente, grazie alla smentita dello stesso testimone che lo aveva accusato, è stato nuovamente processato e definitivamente assolto.
Luciana Alpi è sempre stata convinta della sua innocenza. Lo diceva in continuazione. Con quella certezza e serenità di chi sa di essere nel giusto. Ma anche con quella amarezza che le aveva fatto perdere fiducia nella giustizia italiana. È morta senza ottenere la verità in un’aula di giustizia. Ha chiuso gli occhi non sapendo chi e perché ha ucciso sua figlia una mattina di aprile a Mogadiscio.
La sentenza è netta: condizioni inumane e respingimenti collettivi. «I fatti risalgono al 2017 ma ancora oggi nell’hotspot dell’isola si registrano trattenimenti informali e sovraffollamento sistematico», dice l’avvocata Lucia Gennari (Asgi)
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