Lo schiavismo 2.0 nel lavoro agricolo

Lo schiavismo 2.0 nel lavoro agricolo

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La paura controlla il lavoro agricolo, in tante aree del mondo, sempre di più. Questo accade soprattutto alle donne braccianti, nazionali e migranti, e non succede in luoghi remoti, nascosti, lontani. Accade nell’agricoltura del Mediterraneo. Nelle campagne di Palos de la Frontera nel sud della Spagna, così come a Vittoria in Sicilia; ad Andria e Foggia in Puglia, ma anche a Souss-Massa sulla costa atlantica del Marocco. Sono queste le aree in cui Stefania Prandi, giornalista e fotografa, ha incontrato e intervistato oltre 130 donne braccianti, visitando alcune delle loro case, e parlato con ricercatori, ricercatrici, sindacalisti, volontari e attivisti. Incontri, visite, interviste che hanno dato forma al libro Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo, pubblicato da settenove (pp.112, euro 14), che nel titolo riassume la geografia, i contenuti ed i rapporti sociali di produzione e potere analizzati nel testo.

L’INCHIESTA di Stefania Prandi si è avvalsa di guide speciali, come Mohamed Bouchelka, professore di geografia rurale e sociale presso l’Università di Agadir, che ha spiegato quanto le imprese agricole cerchino manodopera docile, per cui prediligono le donne, in quanto «non sono esigenti, non si ribellano, non hanno pretese. Sono mansuete e si adattano a tutte le condizioni».

Siamo di fronte ad una forza lavoro indebolita da diversi dispositivi: dalle leggi e politiche sulle migrazioni alla riproduzione della violenza patriarcale. Lavoratrici che vivono nella trepidazione e nell’insicurezza costante, al punto di temere di parlare delle proprie condizioni occupazionali. E quando lo fanno, adottano tante precauzioni, accertandosi che il padrone ed altre persone, comprese le altre lavoratrici, non le vedano.

PARLARE DELLE CONDIZIONI di lavoro vuol dire correre un rischio, in molte «temono che salti fuori il loro nome, che la gente del posto le possa riconoscere», anche se alcune si lasciano intervistare «perché credono sia un atto dovuto: se tutti tacciono, le cose non cambieranno mai».

MA CHE COSA È LA PAURA se non l’esperienza della violenza subita direttamente o da persone vicine? Violenza fatta di molestie, pressioni, ricatti, assalti fisici e stupri che tormenta tante donne lavoratrici, costrette a confrontarsi con l’odioso scambio sesso-occupazione. A Vittoria, in Sicilia, ad esempio, «l’abuso di potere è una pratica conclamata», agita da capi e supervisori, anche per esibizionismo, favorita dall’isolamento spaziale in cui in tante si ritrovano a vivere.

La violenza fisica si accoppia con la violenza dello sfruttamento, delle giornate di lavoro pagate meno rispetto ai maschi e di quanto previsto dai contratti, degli straordinari non retribuiti, della flessibilità oraria totale richiesta dalle aziende, degli infortuni non denunciati, del controllo costante dei capi squadra, dei ritmi intensi o degli orari lunghi, dei salari dichiarati in busta paga ma in parte restituiti.

È UNA COMBINAZIONE di violenza di genere ed economica quella che tante donne si trovano a vivere nell’agricoltura di una serie di enclave del Mediterraneo. Una violenza difficile da denunciare, che incontra, però, tante forme di opposizione.
La resistenza, infatti, è sempre attiva, continua, incessante, anche se non si manifesta nelle forme dell’organizzazione e del conflitto collettivo. Resistenze da riconoscere, per non cadere nella trappola secondo cui le imprese, i capi e i caporali avrebbero tutto il potere. Resistenze che ci fanno ricordare che il capitale è un rapporto di produzione oltre che di potere, che si esercita, spesso, attraverso la violenza, in una relazione tra forze.

FORZE CHE CONTRAPPONGONO i profitti al lavoro grigio, ma anche il dominio alla dignità, al coraggio di quante, ad esempio a Sammichele di Puglia, anche con le parolacce, si difendono attaccando, nel corpo a corpo con i singoli capi, indisponibili a perdere la propria dignità. Ricordando che la strada per la giustizia di genere, e, quindi, per la giustizia sociale, è ancora lunga.

FONTE: Gennaro Avallone, IL MANIFESTO



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