Social network, la soffocante Rete delle passioni tristi

by Benedetto Vecchi | 27 Giugno 2018 10:52

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La parola d’ordine è: disconnettersi dai social network perché minacciano la democrazia e veicolano l’odio verso le minoranze

Limitano la libertà di scelta, favoriscono comportamenti gregari, trasformano uomini e donne in «stronzi», minano la verità, cancellano ogni autonomia individuale, distruggono la capacità di provare empatia nelle relazioni umane, rendono infelici, negano ogni dignità a chi lavora, riducono la politica in barzelletta, distruggendo così la democrazia, odiano i singoli e le società. Sono questi i dieci validi motivi per cancellare i propri account nei social network. L’invito, che rimbalza da una pagina all’altra in questo pamphlet, viene da Jaron Lanier, guru della network culture (Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, Il Saggiatore, pp. 211, euro 10).

SCRITTO IN UNO STILE niente affatto accattivante o analitico, il libro sembra la stenografia di un incontro tra due vecchie conoscenze in un bar. Tra un caffè e un drink, uno degli interlocutori non usa mezzi termini per esprimere il disgusto e la diffidenza verso l’ideologia della Silicon Valley. La tecnologia è una cosa buona, così come ottime persone sono molti informatici che vi lavorano, ma le big five (Google, Facebook, Amazon, Twitter e Apple) hanno il potere di corrompere tutto quel che «toccano», afferma più volte l’autore prima di lanciare grida d’allarme per uno stile di vita messo in pericolo dai social network, variamente qualificati come fregatura o sistema che riduce uomini e donne a feroci dementi che tirano fuori il peggio di sé quando sono on line.

Non è la prima volta che Jaron Lanier si scaglia contro i padroni della Rete. Pioniere delle realtà virtuali alla fine degli anni Ottanta, venture capitalist e imprenditore di successo nei decenni successivi è da tempo convinto che il modello di business dominante in Rete ha portato sull’orlo dell’abisso il capitalismo e la società americana. Per evitare che tutto precipiti, propone di disconnettersi dalla Rete per far entrare in crisi proprio quel modello di business.

È DAI TEMPI di Tu non sei un gadget (Mondadori) che Lanier guarda criticamente al modello di business dominante nella Rete, cioè a quello scambio tra cessione dei propri dati personali e alcuni servizi gratuiti garantiti dalle imprese. Allora, siamo nel 2010, il business modelveniva criticato perché leva usata per scardinare interi settori economici (le industrie discografica, cinematografica, editoriale). Il «vangelo» della gratuità veniva diffuso perché sarebbe stata la pubblicità la fonte dei profitti e il pozzo dove attingere capitali e il denaro necessario per avere tutto senza pagare. Temi ulteriormente sviluppati ne La dignità ai tempi di Internet (il Saggiatore).

In questo libro, invece, da buon liberal, Lanier trasuda empatia verso l’immagine di una classe media laboriosa e spina dorsale della società americana, divenuta però vittima sacrificale sull’altare della economia digitale fondata sulla gratuità. Dopo la denuncia è però venuto il tempo di passare all’azione, scrive perentoriamente Lanier, proponendo così la disconnessione dai social network e social media.Molti degli j’accuse presenti nel libro sono condivisibili, a partire dal fatto che Facebook, Twitter, ma anche Amazon, Apple, Google fanno della manipolazione dell’opinione pubblica l’oggetto quotidiano della loro attività. Il software, gli algoritmi, le tecniche di intelligenza artificiale messe in campo dai mastini della Silicon Valley servono a condizionare, influenzare, manipolare le scelte individuali e collettive.

NON ACCADE però solo per i consumi, ma anche per condizionare elezioni presidenziali (negli Usa, ma non solo), referendum nazionali (la Brexit), elezioni politiche. A farlo politici scaltri (Donald Trump o Putin, per citare i più noti). Lanier sostiene, facendo riferimento alle inchieste giudiziarie in corso negli Usa, che i russi hanno usato il web per screditare Hillary Clinton, favorendo così Trump; oppure apprendisti stregoni come Steve Bannon, che hanno alimentato il suprematismo bianco, mentre qualcuno nell’ombra usava account falsi di presunti attivisti afroamericani per mettere in cattiva luce «Black Live Matter».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONDIVISIBILE è anche la denuncia delle «tempeste di merda e odio» scatenate contro gay, afroamericani, donne, transessuali e lesbiche. E i migranti, come accade al di là e al di qua dell’Atlantico. Gli imprenditori della paura sono nel frattempo diventati presidenti degli Usa, ministri degli interni, presidenti del consiglio, premier di paesi a est e ovest dell’Elba in Europa. Tutti accomunati dalla capacità di muoversi e alimentare il mondo della cosiddetta «post verità» e delle «fake news», dopo aver magari messo all’indice i vecchi media, denunciati come bugiardi nella critica delle élite per poi diventare spacciatori di «post verità» una volta entrati nelle stanze del potere.Il pamphlet affronta argomenti già noti, ma comunque utili da ricordare per capire come funziona il business plan della «fregatura» (i social network), a partire dall’uso di algoritmi adattivi, la miscellanea tra software open source e algoritmi blindati da brevetti e copyright; il ruolo rilevante delle machine learning come leva affinché la manipolazione delle relazioni e degli scambi comunicativi risulti oggettiva e «naturale», occultando così la non neutralità del software.

 

IL LIMITE DEL LIBRO non sta nella denuncia della grande fregatura o nell’afflato nostalgico verso la logica economica del passato celato proprio dalla proposta di disconnessione pensata come un ritorno ai valori di un sano capitalismo, ma nella rimozione della precarietà dei rapporti di lavoro, nella violenza dell’espropriazione delle capacità innovative del lavoro vivo, nelle politiche di «cattura» a monte (le materie prime) e a valle (i contenuti) operati dalle imprese del web e non solo. Lanier si limita solo a una disconnessione e a indicare un business model alternativo a quello della gratuità, cioè a quella «peak tv» di Netflix, cioè nel pagamento di un canone mensile per i servizi che può fornire un social network o un social media. Più o meno, cioè, del business plan alla base di iTunes della Apple che non è certo il paradiso in terra per, ad esempio, gli operai della Foxxconn. Secondo il modello di business alternativo proposto, il pagamento del canone renderebbe possibile la non cedibilità dei propri dati personal, perché i profitti non verrebbero solo dalla pubblicità ma proprio dal pagamento dei canoni. Verrebbe così meno il dogma della gratuità in cambio della mercificazione della propria vita, mettendo così fine al grande disordine del capitalismo delle piattaforme. Difficile immaginare che due miliardi di uomini e donne si disconnettano dalla Rete o che imprese come Google o Facebook rinunciano alla loro montagna di profitti per diventare imprese compassionevoli. Dunque, tutto ciò è più un desiderio che l’adesione a un principio di realtà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AL DI LÀ DELLA DEMONIZZAZIONE della gratuità, c’è da mettere a critica un aspetto che percorre il libro di Lanier senza trarne le dovute conseguenze: il business model dominante in Rete parte dal presupposto che la formazione dell’opinione pubblica sia un settore produttivo a tutti gli effetti.Il monitoraggio della Rete, la tracciabilità dei comportamenti individuali, la loro «astrazione» quantitativa sono un aspetto fondamentale nell’accumulo dei Big Data, che vengono plasmati, impacchettati, scomposti e ricomposti come merce da vendere per strategie pubblicitarie mirate. Ma come hanno evidenziato le audizioni di Mark Zuckeberg dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, tutto ciò a che fare con la produzione di opinione pubblica. È su questa faglia che si gioca la partita, sbrogliando il bandolo della matassa che anche Jaron Lanier contribuisce a definire.

NELL’OTTAVA RAGIONE per cancellare i propri account, l’autore si pone il problema del modo di produzione dentro e fuori la Rete. Emerge la dimensione della precarietà diffusa, del lavoro gratuito eletto a sistema dominante dentro la produzione di innovazione sociale e tecnologica, la concentrazione monopolistica nel capitalismo contemporaneo. Nella costruzione di bacini del lavoro vivo, scanditi da una alternanza e copresenza di alta qualificazione e abissale dequalificazione, di alti salari e di working poor. Di una totalità che vede politiche di rapine nel Sud del mondo e intelligenza artificiale messa in produzione. È su questo elemento che si gioca la partita. Ed è su questo crinale che c’è appropriazione privata dei dati personali.È questo l’arcano del business model dominante nel capitalismo contemporaneo. Una volta svelato, il tema della produzione dell’opinione pubblica e della sua manipolazione perde il sapore acido di una critica moralistica per restituire la sua dimensione materiale, dove la questione del potere e dei rapporti sociali diventa finalmente di nuovo centrale.

Le shit storms, gli imprenditori politici della paura, il populismo postmoderno trovano infatti legittimità in questo totalità. Più che disconnetersi da essa, fattore che salva l’anima e niente più, occorre semmai sabotarla, farla deflagare. Ma qui serve un surplus di pensiero critico, quello che occorre per immaginare una politica della liberazione.

FONTE: Benedetto Vecchi, IL MANIFESTO[1]

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  1. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

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