UN PERICOLOSO DISORDINE GLOBALE

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Trump e la penisola arabica: tamburi di guerra

Il primo tour internazionale del presidente Donald Trump, dopo la cerimonia di investitura, come abbiamo visto è stato controverso nella sua tappa europea. Non meno provocatoria è stata la tappa mediorientale.

Trump ha fatto scalo prima di tutto, scelta non casuale, in Arabia Saudita, una monarchia autoritaria e quasi medievale, che promuove e sostiene rigide pratiche sociali e politiche, oltre a una interpretazione dell’Islam estremamente conservatrice (Cockburn, 2017 a).

In questa zona del mondo il tema della violazione dei diritti umani più elementari non è nemmeno contemplato e il linguaggio diplomatico assume toni di cinismo sofisticati, mentre il doppio discorso raggiunge livelli esemplari. Senza dubbio la visita alla regione del presidente americano ha dato a giornalisti e analisti varie notizie con cui riempire pagine e programmi televisivi.

Prima di tutto, c’è stata la ratifica del sostegno nordamericano alla guerra contro lo Yemen, guidata dalla stessa Arabia Saudita. Una guerra con un costo per la popolazione civile altissimo, come hanno confermato le Nazioni Unite in più di una occasione.

La seconda notizia è giunta come un fulmine a ciel sereno, anche se non era del tutto inattesa: l’asse di scontro si è spostato sul Qatar, attraverso l’imposizione di un embargo contro questo ricco Paese del Golfo da parte non solo dei suoi vicini, ma anche di Paesi più lontani come le autorità golpiste dell’Egitto o l’arcipelago delle Maldive.

La “scusa” per l’embargo? L’accusa dell’Arabia Saudita a Doha di appoggiare il “terrorismo” (termine ormai abusato e decisamente elastico).

La reazione di Doha è stata quella di non cedere alla lista di 13 richieste imposte da Arabia Saudita e compagnia: tra di esse, quella di chiudere la televisione Al Jazeera, di rompere le relazioni con l’Iran (Paese che condivide con il Qatar enormi depositi di gas naturale, oltre al rifiuto a condannare il movimento dei Fratelli Musulmani fortemente represso dalle autorità di Riad e dell’Egitto), di chiudere la base militare turca presente nel suo territorio.

Il ministro degli Esteri del Qatar, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, ha chiesto di creare «condizioni adeguate di dialogo» per risolvere la crisi, pur chiarendo che Doha non è disposta a negoziare questioni che riguardano la sua sovranità nazionale (O’Toole, 2017).

Nonostante l’appoggio esplicito degli Stati Uniti all’embargo contro il Qatar, la realtà si è rivelata sul piano concreto più complessa del semplice tentativo di “castigare” il Paese del Golfo, reo di avere una politica regionale diversa da quella di altri Paesi dell’area. L’unico risultato ottenuto, infatti, è stato quello di costringere il Qatar a dipendere, in termini di importazioni basiche per esempio, dall’Iran e dalla Turchia.

La crisi continua e gli equilibri nel Golfo si stanno nuovamente rimescolando.

Un ulteriore risultato, per nulla marginale, di questa specie di telenovela politica – conseguenza, come abbiamo visto, del primo viaggio all’estero di Donald Trump – è stato l’annuncio di importanti contratti di vendita di armi degli Stati Uniti all’Arabia Saudita (per un valore di un miliardo di dollari).

 

Il business della guerra e l’indice globale della pace

Come già nel 2015 anche nel 2016 il Medio Oriente e il Nord Africa sono state le regioni meno pacifiche del mondo. Ma l’America del Nord è risultata la regione dove maggiormente sono peggiorati gli indici che “misurano” i livelli di pace. Un deterioramento dovuto soprattutto all’intensificarsi del conflitto interno e del livello di percezione della criminalità nella società.

Misurare il livello di pace o calcolare i costi delle guerre e della violenza non è impresa facile. Ci prova con una seria analisi di coefficienti, indici e valori il Global Peace Index (GPI), redatto annualmente dall’Institute for Economics and Peace (IEP), che ci offre utili strumenti per capire in che direzione va il mondo. Il costo globale della guerra è stimato in 1,04 trilioni di dollari nel 2016.

Anche l’Etiopia ha aumentato il livello di instabilità e violenza, riflesso di uno stato d’emergenza dichiarato nell’ottobre del 2016 dopo una serie di manifestazioni.

La regione che ha registrato il maggior miglioramento in termini di pace è stato il Sud America, che si è piazzato al quarto posto, superando l’America centrale e i Caraibi.

In termini di Paesi, l’Islanda si conferma il Paese più pacifico del mondo dei 163 analizzati, seguito da Nuova Zelanda, Portogallo, Austria, Danimarca, Repubblica Ceca, Slovenia, Canada, Svizzera. Al decimo posto l’Irlanda. Per trovare l’Italia dobbiamo scendere fino al trentottesimo posto.

Altri dati interessanti riguardano il Qatar, che vanta un trentesimo posto. Cuba la troviamo all’ottantottesimo posto (ha perso cinque posizioni rispetto all’anno precedente) e gli Stati Uniti occupano la posizione 114 (hanno perso 11 posizioni). L’Iran è in posizione 129 (ne ha guadagnate quattro), il Messico 142, seguito da Venezuela e Israele. Colombia occupa la posizione 146, assieme alla Turchia. La Corea del Nord si trova in posizione 150, la Russia 151, il Pakistan 152, l’Ucraina 154. Chiudono Repubblica Centroafricana e Sudan in posizione 155, Libia 157, seguita da Somalia, Yemen, Sudan del Sud, Iraq, Afghanistan e Siria.

I tre “domini” su cui il GPI elabora i suoi dati sono: Militarizzazione, Sicurezza Sociale e Conflitti in corso. Gli analisti del GPI studiano, come visto, 163 Paesi raggruppati in 9 regioni.

L’Europa si conferma la regione più pacifica, seguita da America del Nord e Asia-Pacifico. Medio Oriente e Nord Africa rimangono la regione meno pacifica del mondo: cinque dei dieci Paesi meno pacifici si trovano in questa regione (Siria, Iraq, Yemen, Libia e Sudan), mentre soltanto il Qatar è tra i 50 Paesi più pacifici.

L’Islanda, oltre a confermarsi il Paese più pacifico al mondo, è al primo posto sia per quanto riguarda il dominio Militarizzazione (nel senso che è il meno militarizzato al mondo) e il dominio Sicurezza Sociale (il più sicuro). La Siria al contrario si conferma il Paese meno pacifico al mondo.

Nonostante il mondo continui a essere devastato da guerre, milioni di profughi, violenza, il GPI sottolinea che il 2017 ha registrato un leggero miglioramento. Siamo un pochino più pacifici, ci dicono gli analisti, considerando che il livello di “pace” è aumentato dello 0,28% rispetto al 2016. Per 68 Paesi che sono diventati meno pacifici, ce ne sono stati 93 che hanno migliorato il loro livello di pacificazione. La soddisfazione per questo piccolo miglioramento svanisce subito, se consideriamo i dati dell’ultimo decennio: il livello di pace globale è deteriorato del 2,14%. Le morti in battaglia sono aumentate del 408%, il numero di profughi e sfollati è raddoppiato, il numero di morti per terrorismo è aumentato del 247%. Un dato positivo riguarda la spesa militare: negli ultimi dieci anni il 65% dei Paesi hanno ridotto le spese militari.

L’impatto del terrorismo è aumentato drammaticamente negli ultimi dieci anni. Più di 22 Paesi hanno visto un aumento di oltre il 100%, e 18 Paesi di oltre il 50%. A livello globale, il GPI stima che le morti per terrorismo sono passate da 11 mila nel 2007 a 29 mila nel 2015. Gli attacchi terroristici sono aumentati del 326%, passando da circa 2.800 nel 2007 a più di 12 mila nel 2015. Ben 23 Paesi hanno sofferto un numero record di morti per terrorismo nel 2015, tra cui Danimarca, Svezia, Francia e Turchia.

Nell’ultimo decennio si è registrato un aumento significativo nel numero totale di vittime di conflitti interni: da 35.988 nel 2007 si è passati a 300 mila nel 2016, un aumento del 732%. Se il maggior numero di vittime si è registrato in Siria, al secondo posto si trova il Messico, lacerato da una guerra interna di cui poco si parla, seguito da Afghanistan, Iraq e Yemen.

Nonostante il crescente numero di conflitti dall’inizio del secolo, il livello di militarizzazione delle maggiori potenze è diminuito negli ultimi trent’anni. Il trend è opposto nei Paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo: nei primi si registra una diminuzione del 25% nelle spese militari, mentre nei secondi si registra un aumento del 240%. Da 2,13 miliardi di dollari a 7,25 miliardi. Da sottolineare che gli indici con cui si misura la militarizzazione non tengono conto del significativo aumento nella sofisticazione delle tecnologie militari.

Oggi la spesa militare totale è di 1,72 trilioni di dollari, il 2% in meno che nel 2010 (quando arrivò al massimo di 1,76 trilioni) ma il 44% in più che nel 1987. I Paesi del BRIC sono quelli che hanno registrato la crescita maggiore, con Cina, India e Brasile, aumentando notevolmente la loro spesa militare. La Russia è passata da 343,6 miliardi di dollari nel 1988 a 91,1 miliardi di dollari nel 2015. Ma negli ultimi cinque anni l’aumento è stato significativo: da 65,1 miliardi di dollari ai 91,1 miliardi attuali. La spesa militare in India è aumentata del 193% e in Pakistan del 111% (nel periodo 1987-2016). La Corea del Sud ha raddoppiato la spesa militare annuale (IEP, 2017).

 

LE MISSIONI DI PACE NEL MONDO

All’inizio del 2017 c’erano 21 operazioni di peacekeeping attive nel mondo. Dei 100 mila uomini impegnati, l’85% sono militari e il 15% poliziotti, esperti o osservatori militari. Il 43% circa del personale proviene da Paesi con salari medio-bassi, ma l’80% proviene da Stati con salari medio-bassi e bassi.

Nel 2016 il 94% dei peacekeepers erano stanziati in Medio Oriente, Nord Africa e Africa subsahariana.

Da sottolineare come ormai il peacekeeping non sia più soltanto un’attività post-conflitto: il 53% del personale si trova infatti in Paesi con conflitti armati attivi, tra cui Sudan, Repubblica Democratica del Congo.

Le due nuove operazioni di peacekeeping promosse dall’ONU nel 2016 (Colombia e Somalia) rivelano come il ruolo giocato dalle Nazioni Unite sia molto più ad ampio raggio di quanto non lo fosse anteriormente. L’ONU, infatti, ha progressivamente ampliato il suo mandato, aggiungendo al monitoraggio degli accordi di cessate il fuoco anche la stabilizzazione della situazione di sicurezza, la riorganizzazione le forze di polizia e militari, l’aiuto a implementare accordi di pace complessi e l’aiuto con le elezioni e lo sviluppo di istituzioni democratiche.

La Missione ONU in Colombia (UNMC) è iniziata a luglio 2016 (a luglio 2017 è stata invece approvata una seconda missione, che è cominciata a settembre 2017). Si tratta di una missione che riflette i tradizionali compiti dei peacekeepers: osservatori internazionali non armati che devono monitorare e verificare l’accordo di disarmo e cessate il fuoco firmato a novembre del 2016 dalla guerriglia delle FARC e dal governo colombiano.

L’United Nation Support Office in Somalia (UNSOS) è iniziata a settembre 2016 e ha il compito di aiutare le missioni già attive della stessa ONU e dell’Unione Africana in Somalia con attività che vanno dal fornire assistenza medica a coordinare la logistica (IEP, 2017; United Nations mission in Colombia, 2016).

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photo: Di DoD Photo by Navy Petty Officer 2nd Class Dominique A. Pineiro/Released – https://www.dvidshub.net/image/3114225/58th-presidential-inauguration, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=55221915

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Qui un articolo sul Rapporto, a pag. 4 di ARCI-Report n. 37

Qui un articolo sul Rapporto, da pag. 13 di Sinistra Sindacale n. 21

Qui la registrazione di Radio Radicale della presentazione del 15° Rapporto a Torino, il 31 gennaio 2018

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Qui l’articolo di Sergio Segio “L’apocalisse e il cambiamento possibile”, da Appunti n. 23, 1/2018

 



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