I nuovi scenari di guerre, pace e terrorismo in Africa

I nuovi scenari di guerre, pace e terrorismo in Africa

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Due donne uccise con i figli in spalla in una radura del Camerun settentrionale. Due leader nemici che all’aeroporto di Addis Abeba si stringono la mano dopo decenni di guerra. Immagini che rimbalzano dai fianchi opposti dell’Africa. Danno l’idea di un continente a due velocità e di una mappa ribaltata: le buone notizie adesso arrivano dalla costa orientale, dove soltanto pochi mesi fa il puzzle geopolitico era composto da conflitti incancreniti e nuove fiammate di crisi. Ora invece è dal lato occidentale che arrivano le cartoline peggiori: i conflitti si acuiscono, lungo un cordone che dal Camerun passa da Nigeria e Niger per arrivare in Libia, seguendo guarda caso la rotta principale dei migranti verso il Mediterraneo e le piste dei gruppi jihadisti che conquistano terreno.

Un’Africa double-face, con le facce al contrario: in Etiopia, il secondo Paese più popoloso del continente e baricentro politico dell’area, oggi arriva l’intrattabile Isaias Afewerki, presidente-padrone dell’Eritrea, che ricambia la storica visita del weekend scorso quando il neo premier etiope Abiy Ahmed veniva ricevuto ad Asmara con sorrisi e abbracci. Un disgelo tra Paesi in guerra da decenni. Gli sviluppi sono ancora incerti, ma i riflessi positivi si irradiano per tutto il Corno D’Africa. Ahmed sta cercando di far tornare al tavolo negoziale anche i rivali in lotta nel vicino Sud Sudan, mentre la riconciliazione con Addis Abeba dovrebbe togliere al regime eritreo una giustificazione per quel servizio di leva permanente che ha indotto alla fuga verso l’Europa migliaia di giovani. Il cielo roseo a Est si completa con il Kenya, dove sono rientrati i timori di scontro tra governo e opposizione dopo le contestate elezioni presidenziali. E in questa luce anche la crisi in Somalia, pur insanguinata da Al Shebab, può uscire ridimensionata (se non altro sul fronte dell’oceano dove il pericolo pirati è andato scemando).

Spostando il satellite di qualche meridiano a Ovest, le foto dall’alto descrivono una geografia di conflitti irrisolti. Il gigante dai piedi d’argilla è la Nigeria, il Paese più popoloso (180 milioni di abitanti), la prima economia del continente da cui pure provengono molti dei migranti economici che attraversano il deserto. Senza contare chi scappa dalla guerra. Il governo di Abuja ha cantato vittoria nel Nord-Est, dove ha dislocato metà della sua fanteria di 70 mila uomini. I governativi sono demoralizzati (300 morti e 1.500 feriti nel 2017) e male equipaggiati, mentre i due tronconi in cui si è diviso Boko Haram sono tornati a riconquistare villaggi e fiducia. Secondo uno studio dell’Accademia di West Point, dal 2011 al 2017 il gruppo ha fatto esplodere 434 kamikaze, più di metà donne, con 135 ragazzi. Le vittime soprattutto civili sono state nell’ultimo anno diecimila. Il generale Mark Hicks, comandante delle forze speciali del contingente Usa in Africa (seimila uomini in tutto), ha detto all’Economist che l’ascesa dei jihadisti locali ricorda quella dei talebani in Afghanistan nel 1993.

Paragone terrificante. Una deriva che può ancora essere contenuta, dice il generale, aumentando la pressione sui terroristi che dopo la caduta del Califfato in Siria si rafforzano nella fascia del Sahel, tra il Sahara e le foreste del Centrafrica. La minaccia maggiore arriva dal troncone di Boko Haram fedele all’Isis che conterebbe 3.500 miliziani nei Paesi intorno al Lago Chad.

Peccato che, almeno per quanto riguarda gli Usa, tiri un vento di disimpegno. Dal Pentagono arrivano indicazioni per dimezzare nel giro di tre anni i commando Usa impegnati nello scacchiere. I francesi (che hanno 4.500 soldati, specie in Mali), britannici e tedeschi dovranno aumentare i contingenti. Oltre ai fantomatici hotspot per i profughi, l’Europa dovrebbe mettere altri anfibi sulla sabbia, dal Niger fino in Libia. Ipotesi plausibile? Dopo la morte di quattro soldati americani lo scorso ottobre, il presidente Trump ha ordinato di ridurre le missioni in Niger. La smobilitazione ricorda in modo sinistro quella ordinata da Bill Clinton in Somalia nel 1993, dopo la strage di militari raccontata in Black Hawk Down.

Intanto gli attacchi sono aumentati del 300% dal 2010 al 2017, colpendo anche Paesi refrattari al terrore come il Burkina Faso. Certo dovrebbero essere gli Stati africani a fare il primo lavoro di contrasto. Lo fanno, ma spesso al contrario. Un rapporto del Programma di Sviluppo dell’Onu indica che il 71% dei miliziani che si uniscono ai jihadisti lo fa in risposta alla brutalità delle forze di sicurezza. Ecco la prima immagine dell’Africa double-face: un video diffuso in Rete che mostra uomini con gli occhiali da sole, la divisa e le armi delle forze speciali camerunensi che uccidono a sangue freddo due donne e i due bambini che portano sulle spalle, accusandoli di sostenere Boko Haram. Il governo di Yaounde dice che è un falso. Amnesty International ribatte che ci sono prove (le armi in primis) che inchioderebbero i governativi. In Camerun si vota a ottobre. Il presidente Paul Biya è al potere da quasi 40 anni. La repressione anche nei confronti dei separatisti anglofoni si è inasprita, con testimonianze di stragi di civili nelle foreste. Niente di buono sul fronte occidentale.

FONTE: Michele Farina, CORRIERE DELLA SERA



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Vederlo affiancato, nell’omaggio ai migranti annegati, da ministri che in precedenza si erano vantati di avere organizzato la pratica incivile dei respingimenti in mare aperto, sarebbe stato per lo meno imbarazzante.

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