Il virus dei cecchini contro i migranti

Il virus dei cecchini contro i migranti

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Sono la persona al mondo che meno crede alle teorie e alle sub-teorie del complotto e che meno è sensibile alle ideologie e alle cripto-ideologie della cospirazione. Al punto che quando – in occasione di quelle due o tre circostanze nel corso di un’intera vita – mi è capitato di essere sfiorato da una qualunque forma di macchinazione, ci sono cascato dentro con tutte le scarpe. Si può facilmente immaginare, dunque, quanto abbia resistito agli argomenti di un ottimo giornalista come Paolo Brogi che, nei giorni scorsi, quando un proiettile sparato da un’arma ad aria compressa ha colpito una bimba di 15 mesi, ha minuziosamente ricostruito l’elenco dei più recenti episodi simili. Ed eccolo, quell’elenco.

Nello scorso gennaio, a Napoli, un bambino straniero viene colpito alla testa da un piombino. Poi, nel corso dei mesi successivi, le aggressioni si sono ripetute in varie città. Bersagli sono ora immigrati e ora rom, come la bambina di cui già si è detto. L’altro ieri, a Caserta, un richiedente asilo, viene colpito in pieno volto da due giovani a bordo di un motorino. E, infine, ieri mattina, a Vicenza, un operaio originario di Capo Verde, sospeso su una pedana mobile a 7 metri di altezza, viene colpito da un proiettile sparato da un uomo che spiega: «Miravo a un piccione». Complessivamente, le persone colpite da armi pneumatiche dal gennaio 2018 a oggi sono state undici.

Dunque, in Italia qualcuno ha pianificato una serie di attentati con armi ad aria compressa contro immigrati e rom? Questo si domanda Paolo Brogi e sembra dare in qualche modo una risposta prudente ma positiva. Io resto scettico, ma la mia interpretazione dei fatti è, per certi versi, perfino più inquietante. Ritengo, cioè, che quelle aggressioni siano il frutto di una terribile dinamica di emulazione. Una vera e propria competizione silenziosa tra oscuri cecchini, dissimulati nella vita sociale e mossi da un rancore criminale e meschino nella sua anonima codardia. Certo, andrebbe verificato quale sia il numero totale degli attentati, realizzati con quelle stesse armi e non indirizzati contro bersagli “etnici”: ma una prima e sommaria indagine sembra evidenziare come la componente razziale sia sovrarappresentata.

Dunque, sembra assai probabile che in più luoghi del nostro Paese, più soggetti decidano di individuare e colpire bersagli immediatamente identificabili come estranei alla popolazione autoctona. Sia chiaro: non siamo ancora a una vera e propria “caccia all’uomo nero” ma già si evidenziano numerosi segnali del possibile manifestarsi di una simile tendenza. E questa attività, per giunta, trova nel tipo di arma “minore” utilizzata non solo il suo marchio e la sua identificabilità pubblica, ma anche, per così dire, la sua attenuante. Più che una azione di guerra, l’annuncio di una guerra possibile. Una strategia dell’intimidazione e della minaccia, altamente pericolosa e cruenta, ma non ancora violenza dispiegata. Dopo tutto si tratta di pistole e fucili ad aria compressa. E di ferite non mortali (anche se il morto o l’invalido permanente ci può sempre scappare). E’ proprio il fatto che non sia ancora una fase di guerra aperta a limitare la portata dei rischi e a incrementare il numero degli attentatori e degli aspiranti attentatori.

Il pericolo appare minore e più controllabile e meno rilevanti le conseguenze. Si tenga conto, infatti, che la detenzione di quel tipo di pistola o di fucile non richiede porto d’armi ma solo un documento d’identità al momento dell’acquisto (almeno fino ad una media potenza). E questo rende non solo facilmente accessibile la disponibilità di quelle armi, ma anche più occultabile il loro possesso e utilizzo. E, soprattutto, chi vi ricorre può arrivare a pensarsi come il necessario diffusore di un allarme o uno strumento di prevenzione e non certo come un potenziale omicida volontario. Insomma, come fosse il combattente di un microterrorismo latente e difensivo che può arrivare a colpire una bambina fino a paralizzarla, così, quasi per gioco. Uno sport estremo: una guerra civile a bassissima intensità.

* Fonte: Luigi Manconi, IL MANIFESTO



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  1. Sandro
    Sandro 29 Luglio, 2018, 18:33

    Sono d’accordo: sembra trattarsi di casi di emulazione, fatti già tremendi, inquietanti e preoccupanti. Condivido: siamo forse ai primi passi di una specie di guerra civile a bassissima intensità. Credo che la vera domanda da porsi sia: come arrivano, le persone (maschi in prevalenza, vorrei sottolineare) a odiare tanto, pur sapendo – come sa chiunque abbia preservato in sé un barlume di umanità – che odiare è cosa tremenda, per se stessi non meno che nei riguardi degli altri? Difficilissimo rispondere, ma servirebbe ragionare sempre, su tutto: e comunque non butterei via la vecchia, sostanziale idea contenuta nelle analisi marxiste della società: se si lascia che il mondo diventi un’arena dominata dalla versione più cruda e globalizzata del capitalismo di rapina – l’economia con le sue leggi spietate domina la vita intera delle persone – alla lunga, ma anche presto, infelicità, rancori vari e odio trovano maggior spazio, specie nei quartieri sempre più vasti e desolati occupati dagli ultimi. Resta il fatto che se si ascoltano i discorsi delle persone in strada, nelle case, in treno, ecc., si percepisce un’onda strana, non semplice da definire e però consistente di rabbia sguaiata (dico “sguaiata” di proposito: è quasi incredibile vedere le persone lasciarsi andare a certi commenti, dei quali, avanzo l’idea certo discutibile, in fondo esse stesse SI VERGOGNANO: ma appunto questo è il dato “interessante”, il decadimento dell’umano, MALGRADO l’umanità di tutti) di insofferenza, esasperazione diffusa, che trova sfogo nel disprezzo per i “politici” e genericamente la politica in molti casi, e assieme per gli stranieri, specie se esteriormente diversi da noi. E la ragione di tutto questo non può essere la propaganda della destra: sarebbe un errore pensarlo. Occorre un’analisi oggettiva, proprio nel vecchio spirito e senso marxista dell’espressione, dei fatti e processi sociali. Analisi che dovrebbe andare oltre la pratica dei diritti umani, la quale, spiace dirlo, fin troppo spesso risulta essere innocua rispetto all’azione dei meccanismi di fondo del vivere sociale globale: meccanismi che generano, loro sì, infelicità e divisione, chiusura e reazione. Torno al punto di prima: odiare non è naturale, e lo sappiamo. Si deve vivere una condizione di frustrazione vera e grande per poter accedere a schemi di pensiero e emozioni così negativi. Infelicità e frustrazione esistono, sono fatti oggettivi, da comprendere. Da qui occorre partire, sempre, per discutere le condotte delle persone in società. Invece troppe “analisi” di questi tempi risolvono sbrigativamente le cose, imputando alla destra, a Salvini, a questo o quello la responsabilità della deriva del vivere civile italiano. Troppo facile, e superficiale. Viviamo male tutti, in un mondo profondamente malfatto, nel quale il relativo e comunque ora ridiscusso benessere materiale non si accompagna alla creazione di felicità collettiva, condivisa; alla cura della vita. E alla lunga, la mancanza di cura per la vita prende anche le forme di cui discutiamo, credo. Per questo, non serve chiedersi se gli italiani sono “razzisti” o chissà che altro: ma semmai, se l’umanità loro, nostra, di tutti, trova modo di esprimersi, anche in termini di serenità e pace; o se invece avviene il contrario.Infine, a margine, una nota non trascurabile: non dimentichiamo che il male non lo creiamo noi soli, ma lo portano qui dove siamo anche, sempre per effetto della violenza del mondo in cui viviamo, anche degli stranieri: che rendono visibile la conflittualità del reale attuale. Negare questo è altro errore, di cui si pagano le conseguenze.

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