La morsa del Fiscal Compact e la crisi bancaria

by Roberto Ciccarelli, dal 15° Rapporto sui diritti globali | 16 Luglio 2018 7:30

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Il Fiscal Compact e il tardivo pentimento italiano

La critica dell’austerità è accettata da tutte le forze. Dopo avere votato in massa l’introduzione del pareggio di bilancio nell’articolo 81 della Costituzione, la politica italiana ha scoperto di avere commesso un grave errore. Ora anche le forze di governo sostengono di volere “rottamare” il Fiscal Compact, separandolo dai parametri di Maastricht, investire per diversi anni il 2,9% del PIL e abbassare le tasse, distribuire bonus, evocare investimenti e coprire le emergenze sociali prodotte dalla crisi. Sussurri e slanci per lo più dettati dall’affannosa ricerca di una crescita che esiste, ma è sempre più elusiva in termini di occupazione e salari.

In queste condizioni il proposito di Renzi di «ridurre il debito con la crescita» è una pia illusione. Sembrano passati secoli da quel 2012, quando il parlamento italiano votò per inserire nella Costituzione, con una maggioranza assoluta composta dal PD e Forza Italia in testa, la base fondativa della norma più temibile e rovinosa del Fiscal Compact (patto di bilancio): abbattere il debito pubblico italiano dal 132,8% del PIL al 60%, con un ritmo di 1/20° all’anno. Allora nessuno comprese il senso di quel voto che sfregiava la Costituzione repubblicana e il baratro che si spalancava davanti a più di 60 milioni di persone, chiamati a un livello di sacrifici insostenibile. Il Gattopardo italiano non si smentisce mai: gli stessi attori che azionarono il conto alla rovescia oggi vogliono invertire il corso del tempo da loro stessi voluto.

Nel Rapporto sui diritti globali 2012, che avevamo significativamente titolato La Grecia è vicina, ancor prima di quello sciagurato voto parlamentare preconizzavamo: «Il pacchetto delle misure recessive imposte alla Grecia è lo stesso di quelle imposte all’Italia, solo che l’Italia al momento sta meno peggio. Ma su tutti e due i Paesi incombe il Fiscal Compact, che impone ai due Stati in recessione di arrivare, costi quello che costi, al 60% del rapporto tra debito e Prodotto Interno Lordo, altro totem come il 3% del rapporto tra deficit e PIL stabilito a Maastricht – per poi essere considerato “stupido” dall’ex presidente della Commissione Europea Romano Prodi. La riduzione del debito pubblico a un nuovo indice ancora una volta del tutto discrezionale se non arbitrario, nei tempi e nei modi attualmente previsti, porterà la Grecia, l’Italia e non solo al massacro». Un massacro sociale già drammaticamente arrivato per la Grecia e dietro l’angolo per l’Italia.

La volontà di opporsi all’integrazione del Fiscal Compact nel Trattato europeo sulla stabilità, ora tardivamente dichiarata per motivi elettorali in vista del 2018, non fa però i conti con una serie di complicazioni giuridiche create dall’uso emergenziale del diritto europeo. Come ha sottolineato un parere dell’Ufficio parlamentare di bilancio, la possibilità di non recepire il Fiscal Compact nell’ordinamento nazionale «sembra giuridicamente molto limitata». «Confrontando i suoi contenuti normativi con la legislazione europea si ricava che, a eccezione di poche limitate disposizioni, il set di regole fiscali del Fiscal Compact è già incorporato nell’ordinamento dell’Unione Europea». Gli obblighi del patto di bilancio sono già contenuti in regolamenti e direttive altrettanto vincolanti per gli Stati membri dell’UE. Anche senza applicazione di questo accordo intergovernativo – che secondo una clausola dell’articolo 16 del Trattato sulla stabilità dovrebbe essere integrato nel Trattato europeo sulla stabilità, coordinamento e governance dell’UE entro cinque anni dal suo varo – «gli Stati firmatari del Fiscal Compact continuerebbero a essere giuridicamente tenuti alla sua applicazione».

La mancata applicazione del precetto non porterà a una sanzione, ma continuerà a vincolare giuridicamente gli Stati europei (25 su 27) che l’hanno sottoscritta. In altre parole, che sia o meno integrata in un Trattato europeo, la norma principale dell’austerità ratificata definitivamente dal parlamento nel luglio 2012 continuerà a valere, obbligando tutti i governi a rispettarla, anche in mancanza della crescita com’era-un-tempo. La situazione è irreversibile, a meno che gli Stati e i governi dell’UE non trovino un accordo politico per modificare all’unanimità tutte le regole dei bilanci europei (Ufficio parlamentare di bilancio, 2017).

Le promesse intese su una “riforma” dell’UE tra il neo-presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera Angela Merkel in attesa del quarto mandato non arriveranno mai a tanto.

 

La crisi delle banche italiane

Il 2016 e il 2017 sono stati caratterizzati da un ritorno del rischio per le banche italiane: Veneto Banca e Popolare di Vicenza, dopo Etruria, Banca Marche e le Casse di Risparmio di Ferrara e di Chieti, salvate da un decreto del governo di Matteo Renzi nel novembre 2015. Un salvataggio avvenuto in base alle nuove regole europee che hanno aiutato dipendenti e gran parte dei risparmiatori, causando perdite agli azionisti e a chi aveva investito denaro nelle obbligazioni delle quattro banche. Il bail in, un sistema che prevede il salvataggio di una banca con le risorse degli investitori, ha sostituito le vecchie società con quattro nuove banche dove ci sono solo gli “attivi”, filiali, dipendenti e crediti che hanno delle possibilità di essere riscossi.

Gli stress test condotti dall’Autorità Bancaria Europea (EBA) e dalla Banca Centrale Europea (BCE) su 51 banche hanno indicato la necessità di procedere alla ricapitalizzazione del Monte dei Paschi di Siena (MPS).

Complessivamente, la situazione bancaria ha creato un rischio per le finanze pubbliche, come per la stessa crescita in Italia. Il debito “cattivo” è un peso per la profittabilità delle banche che potrebbe influenzare i tassi bancari per i settori non finanziari e potrebbe costringerle a limitare l’offerta del credito per affrontare il rischio sui bilanci.

Negli stessi mesi della crisi italiana, anche la Germania ha dovuto fare i conti con il caso Deutsche Bank che deve affrontare la minaccia di una penalizzazione da cinque miliardi di dollari contestata dai tribunali statunitensi per avere venduto prodotti finanziari fondati su mutui tossici agli investitori. Problemi bancari esistono anche a Cipro e in Grecia, dove il debito bancario per prestiti in sospeso supera il 38%. In Irlanda ha raggiunto il 14,7%, in Portogallo il 15,4%. L’Eurozona non ha mai assorbito lo shock della crisi finanziaria del 2007.

Sono stati almeno due gli aspetti critici di questa operazione valutata, a livello europeo, tra i “rischi” di instabilità politica continentale. L’uso di risorse pubbliche, pari a cinque miliardi di euro, per una “ricapitalizzazione precauzionale” che, in pratica, è una nazionalizzazione e la scelta politica di rovesciare l’impianto europeo che vieta gli aiuti di Stato in questi casi. Per molti il salvataggio delle banche venete, e la cessione a Banca Intesa della “good bank” in cambio di un euro simbolico, ha evidenziato la contraddizione in cui vive tanto l’incompleto sistema bancario europeo quanto la più generale impostazione capitalista dell’Unione Europea. Tutto si è giocato sulla definizione di “rischio sistemico” rappresentato dalle banche in questione. È stata l’evocazione di tale rischio a spingere la Commissaria alla concorrenza UE, Margrethe Vestager, ad autorizzare gli aiuti di Stato a beneficio di Banca Intesa. Ma tale rischio era stato escluso poco prima dalla Vigilanza della BCE. «La vicenda conferma una tendenza nella gestione delle crisi bancarie italiane degli ultimi anni. Le autorità provano a rimandare le soluzioni e spesso lasciano che considerazioni politiche prevalgano sulle istanze economiche. L’abbiamo visto con il ritardo nella ricapitalizzazione di MPS, avvenuta solo dopo il referendum costituzionale, nella creazione di Atlante e nello sforzo impari di proteggere i possessori retail di obbligazioni subordinate, a cui semplicemente quei prodotti non avrebbero dovuto essere venduti. Oggi lo vediamo nei generosi aiuti per la liquidazione delle banche venete. Alcuni lo vedranno come un epilogo felice, altri per quello che è: una scelta politica. A Bruxelles, forse la vicenda dimostrerà finalmente che l’armonizzazione del diritto fallimentare in materia bancaria è un completamento indispensabile della BRRD [Bank Recovery and Resolution Directive, ndr]. Finché non lo si farà, rimarrà aperta la porta all’uso del diritto nazionale per evitare la risoluzione delle banche» (Merler, 2017).

Questa “scelta politica” è stata concepita per risolvere, in fretta e furia, uno dei veri problemi che ha spaccato da tempo il fronte delle élite che hanno gestito i governi di “larghe intese” dalla fine del 2011. È ormai nota la dura polemica che ha contrapposto Mario Monti, presidente del Consiglio negli anni in cui la crisi bancaria italiana si è manifestata, e Matteo Renzi, che ha dovuto operare su almeno due fronti per puntellare un sistema in crisi. Il primo ha escluso che, al tempo, si dovesse procedere a un salvataggio, il secondo lo ha accusato di non essere intervenuto, nascondendo di fatto una crisi che ha costretto il suo governo (e quello successivo e di Paolo Gentiloni) a intervenire con i soldi pubblici. In mezzo esistono numerose responsabilità, a partire dai “controllori” della Banca d’Italia che permisero a piccole banche di vendere titoli tossici ai loro risparmiatori. Quando la BCE ha iniziato a procedere con i suoi stress test, all’interno della Direttiva europea sul risanamento e la risoluzione delle Banche (Bank Recovery and Resolution Directive, BRRD), questa politica è stata scoperta e la Vigilanza della BCE ha “costretto” Banca d’Italia a procedere. Per almeno due anni il sistema bancario italiano è stato considerato a livello continentale come un fattore di rischio politico e tale emergenza ha spinto a soluzioni che contraddicono l’impianto delle politiche sulla concorrenza dell’UE.

Un retroscena interessante, da intendere anche come un’auto-giustificazione, è stato raccontato dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nelle sue Considerazioni finali alla Relazione annuale (Visco, 2017). Visco ha riconosciuto che il problema esisteva sin dal 2013, ma che è stato impedito alla sua Banca di agire proprio in ragione della legislazione europea in materia di aiuti di Stato. La necessità di agire prima, quando erano le banche tedesche e francesi a farlo con il sostegno dei rispettivi governi, non è stata citata. Nel frattempo è cambiata la legislazione in Europa: gli interventi fatti a spese dei contribuenti in Germania e in Francia erano diventati impossibili a causa delle nuove leggi sugli aiuti di Stato.

 

 

 

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