Magliette rosse. Adesso aiutiamoli a saltare

Magliette rosse. Adesso aiutiamoli a saltare

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I migranti in mezzo al mare indossano la maglia rossa per farsi vedere meglio. Oggi ce l’abbiamo anche noi per parlare di loro e dei diritti calpestati. Ma dobbiamo avere argomenti buoni per farlo.

Io faccio sempre l’esempio della casa in fiamme. Dalle finestre saltano le persone quando arriva qualcuno per salvargli la vita. Ma saltano lo stesso anche se si schianteranno.

Da molti paesi la gente viene via più o meno alla stessa maniera. Scappa anche se non l’accoglie nessuno. «O mangi questa minestra o salti dalla finestra» si diceva quando eravamo bambini.

Ma per un gran numero di persone non esiste una minestra in alternativa al salto. Siamo noi da questa parte del mare con le nostri regole a fare distinzioni. Loro stanno alla finestra e, mentre saltano giù, decidiamo chi far cadere sul morbido, chi far schiantare e chi rimandare a forza nella sua stanza in fiamme.

Quattro anni fa a Lampedusa Fessaha mi parla degli stranieri. Gente come lei. Mostra le foto di due fratelli. Indica il più giovane.
«368 son partiti dalla Libia. Il maggiore non sapeva che anche il piccolo era salito sulla barca. Se n’è accorto vicino alla terra ferma quando hanno cantato in tigrino: Madre di Dio, tu che sei onnipotente, tu ci hai salvato.

Musulmani, cristiani, ortodossi, cattolici tutti insieme hanno fatto questa invocazione: grazie a te che hai messo il manto sopra noi siamo arrivati sani e salvi!

Poi di colpo lo scafista ha bruciato qualcosa perché passavano delle navi. È stato come se qualcuno dal buio arriva, ti da uno schiaffo e tu non capisci chi è stato e la barca… è finita.
Il fratello piccolo si è aggrappato alla gamba del grande, poi il mare l’ha portato via.

Il corpo del fratello lo abbandonava e non poteva farci niente. Ha lottato contro l’onda e solo lui s’è salvato. Ha visto otto bambini piccoli che venivano strappati dal mare, dalle loro mamme, che non capivano, che gridavano.

Alcuni pensavano che era un gioco, cercavano la mamma. Ha visto tutti questi bambini andare giù. Ha gridato ancora al cielo con gli altri: perché ci hai abbandonato, mentre prima ci avevi portato in salvo? Ha detto: le mie lacrime salate si mischiavano all’acqua salata che ci veniva in bocca e negli occhi».
Fessaha dice «il giovane voleva andare a studiare. In Eritrea c’è il regime che dai 16 fino a 55 anni vanno a fare il servizio militare e questo impedisce un futuro di studio, lavoro, di sposarsi. Per questo scappano».

Quattro anni fa anche il becchino di Lampedusa mi parla di stranieri. Lui ha visto i primi corpi arrivati dal mare. S’è messo la menta pistata in una mascherina per non sentire la puzza dei cadaveri in decomposizione. Li ha seppelliti senza nome vicino a quelli arrivati nell’isola durante gli ultimi due secoli per la colonia spagnola, il passaggio del pesce azzurro e le spugne di mare.
Me li ricordo in un’alba straziante. Al camposanto c’erano solo i musicisti della banda. La prima tappa della marcia che finisce nell’acqua della Guitgia comincia lì. Suonano per ricordare che i defunti sono tutti uguali, ma pure i viventi.

FONTE: IL MANIFESTO



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