Nicola, Mathilde, Hassan i volontari dell’Aquarius bloccati a Marsiglia
Navi da crociera in partenza per la Corsica sullo sfondo. La luce bianca di Marsiglia avvolge tutto. Superati i controlli, sul molo 2, lontano, s’intravede una macchia arancione. La prua dell’Aquarius è circondata da uno strano silenzio. Un marinaio asiatico tira alcuni cavi sotto al tendone blu nel quale di solito viene organizzata la prima accoglienza dei bambini. Il capitano russo è sceso per il pranzo. I ragazzi del Rescue Team stanno tornando dalla spiaggia. Sono andati a fare l’addestramento quotidiano.
«Manteniamo la nostra routine, ci teniamo pronti». Nicola Stalla dimostra molto meno dei suoi 39 anni. Fisico minuto, pizzetto, ha tatuato sul polpaccio il disco di Plimsoll che indica la linea di galleggiamento. Nella sua vita precedente era un ufficiale su navi mercantili, insegnava all’istituto nautico di Imperia. È salito a bordo dell’Aquarius dopo aver incontrato alcuni migranti a Ventimiglia. Il responsabile del Rescue Team ha appeso in cabina un premio dell’Unesco «in riconoscimento degli sforzi per salvare vite di rifugiati e migranti del Mediterraneo».
L’Aquarius è salpata la prima volta da Marsiglia nel febbraio 2016. Dopo due anni e mezzo di navigazione nel Mediterraneo, quasi 30mila persone “strappate al mare” come dice l’equipaggio, è di nuovo in Francia. Le autorità non hanno potuto rifiutare una “sosta tecnica” alla nave di Sos Méditerranée e Médecins Sans Frontières anche se Emmanuel Macron aveva negato l’approdo mentre infuriava la battaglia politica con l’Italia. Era il 9 giugno scorso, tutto il mondo aveva gli occhi puntati sull’Aquarius dirottata in mare con 630 migranti a bordo. Un secolo fa. È bastato un mese perché l’indignazione lasciasse il posto alla stanchezza, al senso di impotenza.
L’operazione “porti chiusi” è stata di un’efficacia micidiale.
Le Ong sono sparite nel tratto di mare davanti alla Libia. Si continua a morire, come e più di prima. «È istigazione all’omissione di soccorso».
Alessandro Porro, 38 anni, piemontese, indossa una maglietta rossa. Anche lui è nel Rescue Team di dodici persone composto in questo momento da molti italiani.
Non li sentirete mai citare il nome di Matteo Salvini. «Siamo a disagio, non facciamo politica» commenta Alessandro.
Qualcuno mette in vivavoce il video di un applauso durante un piccolo raduno ad Asti. «È per noi». Facce stanche, sguardi un po’ smarriti. È il mal di terra dopo dieci giorni senza navigazione, o forse qualcosa di più grave. «A volte ci sentiamo un po’ soli». Viviana di Bartolo, siciliana, lunghi capelli biondi, unica donna tra i soccorritori, si è laureata con una tesi sulle operazioni in acque Sar.
«Mettiamo in pratica le regole del diritto marittimo» ripete.
Consiglia di leggere alcuni articoli giuridici pubblicati dall’Associazione Diritti e Frontiere. In queste settimane, sono arrivati tanti messaggi di solidarietà, ma anche insulti, minacce. Il clamore intorno all’Aquarius ha fatto aumentare le donazioni a Sos Mediterranée da parte dei francesi, meno in Italia, dove la campagna contro le Ong, inaugurata già sotto il precedente governo, ha causato un crollo nella raccolta dei fondi. Il vento è cominciato a girare l’estate scorsa, con i sospetti, le inchieste, termini come “taxi del mare”, “vice-scafisti”, il codice di condotta varato dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti che ha diviso le Ong.
Niente è stato più come prima.
«Da metà agosto avevamo ricominciato a lavorare, trovando un modus operandi» ricorda Mathilde Auvillain, responsabile della comunicazione. Passato il clamore, la situazione si era in qualche modo normalizzata.
«Forse tra qualche settimana sarà di nuovo così» dice Mathilde, sguardo azzurro, sorriso dolce. È solo una speranza, senza nessuna certezza. Aspetta il suo primo bambino. Va su e giù per la nave come se niente fosse.
«Relativizzo il mio stato dopo aver visto quante donne incinte hanno fatto la traversata o partorito a bordo». Alex, Newman, Favor, Christ, Mercy.
L’ultimo piccolo nato sull’Aquarius il 28 maggio si chiama Miracle. Sono i bei ricordi che l’equipaggio ogni tanto condivide per darsi forza.
Finora l’Aquarius non aveva mai interrotto i soccorsi, neppure in inverno. L’imbarcazione ha avuto il suo battesimo del mare nel 1977 con il nome “Meerkatze”, gatto dei mari.
Prima di essere noleggiata dall’Ong francese a un armatore tedesco, veniva usata dalla guardia costiera nel Mar Baltico. Il 29 giugno, dopo aver sbarcato i migranti a Valencia ed essere tornata per qualche giorno davanti alla Libia senza poter effettuare salvataggi, è arrivata a Marsiglia. Doveva ripartire subito ma gli ostacoli politici e burocratici si moltiplicano.
Salvini insiste nella chiusura dei porti italiani alle Ong. Il comunicato dell’ultimo Consiglio europeo ha delegato sempre più il pattugliamento alla Libia. La Lifeline è stata sequestrata dalle autorità di Malta in nome di cavilli burocratici, una sottile forma di intimidazione. Nel frattempo, è stato creato il Rescue Coordination Center a Tripoli che dovrebbe occuparsi delle acque Sar fino a 85 miglia dalle coste. Il Mrcc di Roma può in teoria chiamarsi fuori e le Ong essere costrette a prendere ordini dalle autorità libiche.
«Impossibile» chiosa Hassan Ali Sayed Salem, egiziano arrivato a Lampedusa il 24 dicembre del 2001 in un naufragio in cui sono morte 161 persone. Aveva 13 anni. È diventato mediatore culturale nei centri immigrazione della Sicilia, oggi è tra i soccorritori dell’Aquarius.
«Quando ci avviciniamo a un barcone sono il primo a parlare alle persone in arabo o inglese per cercare di stabilire un rapporto di fiducia». Due mesi fa, le cose non sono andate come dovevano. L’Aquarius è stata chiamata per occuparsi di un’imbarcazione che chiedeva aiuto. «Abbiamo cominciato col prendere bambini e donne. Poi è arrivato l’ordine di fermarci, di aspettare la guardia costiera libica. Ricordo un ragazzo che mi guardava e chiedeva: “Cosa sta succedendo?”. Non ho avuto la forza di rispondere. Il ragazzo ha capito, si è messo a piangere ma non ha detto nulla agli altri per evitare movimenti di panico. I libici sono arrivati e hanno riportato via tutti gli uomini sul barcone. Il giorno dopo, sull’Aquarius una signora si è avvicinata. “Hai consegnato mio marito all’Inferno. Che Dio ti maledica”».
Tutti ora aspettano un segnale che sblocchi questo stallo. I dirigenti dell’Ong fanno riunioni tecniche, chiedono consulenze per capire quali sono i rischi a cui vanno incontro. Dietro le quinte, se e quando ripartirà, la nave si prepara ad affrontare tempi di navigazione più lunghi. Alcuni membri dell’equipaggio temono che il prossimo viaggio potrebbe essere l’ultimo. L’altro giorno è venuto a bordo il musicista Paolo Fresu, poi ha fatto un concerto di solidarietà per Sos Méditerranée. Tanguy Louppe, bretone, con dreadlocks e cappello da marinaio, ha raccontato una storia prima dello spettacolo.
Seduto davanti a una tazza di caffè nella mensa della nave, non riesce a ripeterla.
«Preferisco scrivere». Ieri pomeriggio ha mandato una mail. «È la storia di un tipo. La prima volta che l’ho visto aveva il naso e un pezzo di labbro che affiorava dall’acqua. Con il braccio sinistro faceva un debole gesto per “nuotare”. Con il braccio destro teneva sua moglie. Io vedevo che la donna era già morta. Lui l’ha scoperto dopo. Quando ho deciso di tendergli la mano per farlo uscire da lì, non mi sono domandato se era un migrante economico, un rifugiato o un cittadino legale alla deriva… Avevo altre priorità. Insomma, era soprattutto lui che aveva altre priorità. Storie come questa, con i miei colleghi soccorritori, ne abbiamo migliaia da raccontare. Ce ne sono altre migliaia che non verranno mai raccontate perché nessuno sarà più lì per vederle».
Fonte: Anais Ginori, LA REPUBBLICA
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