Sergio Marchionne se ne va. Alla guida di Fca arriva Mike Manley

Sergio Marchionne se ne va. Alla guida di Fca arriva Mike Manley

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L’azienda: condizioni peggiorate. John Elkann nominato presidente della Ferrari. L’Ad sarà Louis C. Camilleri

Con urgenza e d’improvviso vengono convocati i consigli d’amministrazione di Fca, Ferrari e Cnh Industrial per nominare anticipatamente il successore di Sergio Marchionne. La fine di un’era. Solo in serata, dopo il circolare delle più disparate voci, l’azienda conferma: «Sono peggiorate le condizioni di Marchionne».
Il manager, sottoposto nelle scorse settimane a un intervento chirurgico, «non potrà riprendere la sua attività lavorativa» a causa, recita un comunicato della casa automobilistica, di «complicazioni inattese durante la convalescenza». Le condizioni di salute dell’ormai ex amministratore delegato di Fca (presidente e ad di Ferrari, presidente di Cnh), ricoverato all’ospedale di Zurigo dov’era stato operato alla spalla destra, sono molto gravi.

A succedergli nel ruolo di ad di Fiat Chrysler Automobiles è Mike Manley, inglese di 54 anni, finora responsabile del brand Jeep e anche del marchio Ram, specializzato nella produzione di pickup e van. Una scelta interna, com’era nelle previsioni, ma che sarebbe dovuta avvenire solo nella primavera del 2019. Una scelta che premia la parte statunitense del gruppo, ormai preponderante nelle linee strategiche aziendali. Un’opzione temuta dai lavoratori italiani, preoccupati per il futuro degli stabilimenti. Nei mesi scorsi era circolato il nome di Alfredo Altavilla, attuale responsabile Europa per Fca. Manley, fedelissimo di Marchionne, è considerato l’artefice del successo di vendite di Jeep: dalle 338mila del 2009 al milione di veicoli venduti in ognuno degli ultimi 4 anni.
L’era Marchionne è durata 14 anni, tra difficoltà, speranze, exploit finanziari e polemiche. «Voglio che la Fiat diventi la Apple dell’auto. E la 500 sarà il nostro iPod», annunciò nel giorno della presentazione della nuova 500 nel 2007. Con lui la Fiat, la Fabbrica Italiana Automobili Torino, non sarebbe stata più la stessa. Classe 1952, nato a Chieti, figlio di un maresciallo dei carabinieri, studi in Canada – filosofia e legge – dov’era emigrata la famiglia, fu nominato ad Fiat nel 2004, in una fase critica. Risanò i conti (il soccorso pubblico fu d’aiuto), poi, negli anni successivi mostrò il pugno duro, portando in dote gli interessi della famiglia Agnelli-Elkann, che spingeva, tra le righe, per più finanza e meno industria.

Marchionne ha incarnato un cambio di paradigma sui diritti dei lavoratori diventato un modello nell’Italia del Jobs-Act. È stato il manager del referendum sul contratto a Mirafiori e Pomigliano, dello scontro frontale con la Fiom, dell’addio della Fiat a Torino come quartier generale, dell’americanizzazione del gruppo con l’acquisto di Chrysler «sponsorizzato» dal governo Obama. E della finanziarizzazione: i conti vanno benissimo – a fine 2017 utile netto quasi raddoppiato, in crescita del 93% a 3,5 miliardi di euro – i piani industriali sono, invece, più incerti.
Proprio alla presentazione dell’ultimo piano, il primo giugno, aveva detto che ai successori non avrebbe lasciato copioni perché «Fca è un insieme di culture e di manager nati dalle avversità».

Ieri, in una giornata turbolenta, sono state ufficializzate le altre nomine. Cnh Industrial ha «affidato la presidenza della società a Suzanne Heywood», manager 49enne di Southampton. Nel frattempo Derek Neilson proseguirà l’incarico di Ceo ad interim, assicurando continuità operativa. Il consiglio Ferrari ha deciso di nominare John Elkann presidente e proporrà all’assemblea degli azionisti, che verrà convocata prossimamente, di investire come ad Louis C. Camilleri, nato 63 anni fa ad Alessandria d’Egitto, già presidente di Philip Morris.

Federico Bellono, segretario generale della Fiom torinese, ha commentato: «Le notizie di queste ore, nella loro drammaticità, aggiungono ulteriore incertezza a una situazione in cui le prospettive degli stabilimenti e dei lavoratori italiani di Fca e Cnh erano alquanto indefinite, anche dopo l’Investor Day del primo giugno. C’è il rischio che i tempi delle decisioni si allunghino e che la marginalità di Torino e dell’Italia rispetto alle strategie del gruppo aumenti ancora. Ora più che mai serve che le istituzioni locali e il governo si facciano parte attiva».

* Fonte: Mauro Ravarino, IL MANIFESTO



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