Se questo è un migrante. La nuova politica tedesca, tra i container-lager

by ROBERTO BRUNELLI * | 5 Agosto 2018 17:01

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MANCHING ( GERMANIA). Sotto il sole cocente c’è una fila di container gialli, circondati da una rete di ferro. Dentro sono stipati, in camerette minuscole, centinaia di migranti. Uomini, donne, bambini. Molti vengono dalla Nigeria, dall’Afghanistan, alcuni anche dall’Ucraina. Davanti c’è un immenso parcheggio, vuoto. Vicino all’ingresso del campo e lungo la rete si aggirano gli uomini nerovestiti della security. I profughi non possono lavorare, né imparare il tedesco, neanche cucinare. Non possono fare nulla. «Possiamo solo aspettare», sussurra un ragazzo africano che si chiama King David, 22 anni. Si guarda intorno con nervosismo. Ha paura.

Siamo a Manching, una settantina di chilometri da Monaco. In fondo a questo paesino fatto di casette tutte uguali e di centri commerciali sorge uno dei sette “centri di ancoraggio” per richiedenti asilo della Baviera: la sede principale è quella di un’ex caserma, poi ci sono quattro “dépendance”, fatte di container, localizzate tra Manching e Ingolstadt. Complessivamente, questi centri “ospitano” tra le 1100 e le 1500 persone. Per il ministro degli Interni tedesco, Horst Seehofer, leader carismatico della Csu – partito “fratello” della Cdu di Angela Merkel – sono il modello sul quale fondare d’ora in poi la politica migratoria tedesca e possibilmente anche quella europea: concentrazione di migranti e respingimenti rapidi.
Altro che politica delle “porte aperte”, come diceva la cancelliera tre anni fa sull’onda più alta della crisi dei profughi, quando in Germania arrivò fino ad un milione di persone. Oggi è una virata di 180 gradi, a fronte di un drastico calo degli arrivi: c’entra anche il voto bavarese del 14 ottobre, dove la Csu di Seehofer e del governatore Markus Söder rischiano di perdere la maggioranza assoluta. Logica conseguenza: la parola d’ordine “integrazione” è stata sostituita da “respingimento”. Non tutti la pensano così: associazioni di volontariato, esperti di fenomenimigratori e parte dell’opposizione parlano di «lager di massa».
Termini che hanno un peso, in Germania.
I racconti di chi sta dentro l’Ankerzentrum si assomigliano tutti. Molti non vogliono dire il loro nome, hanno paura degli uomini della security (privata, peraltro). «Quasi ogni notte veniamo svegliati dai guardiani e dai poliziotti che entrano per prelevare qualcuno che dev’essere respinto», dice un uomo dall’età indefinibile in maglietta blu, nigeriano. Le autorità dicono che questo procedimento viene adottato per «accorciare i tempi» il più possibile e far decollare chi non ha ottenuto il diritto d’asilo.
Questo è appunto il senso dei “centri di ancoraggio”: tempi rapidi, e poi via. Per questo in ognuna di queste strutture sono concentrati tutti gli uffici delle autorità necessari a gestire il processo che ruota intorno alla richiesta d’asilo con annessa la decisione se rispedire il migrante nel Paese del suo primo approdo, secondo la convenzione di Dublino: l’ufficio federale per la migrazione e i profughi, le autorità per i minori, l’ufficio del lavoro e i distaccamenti della procura.
«Prima questi erano tutti centri di transito», spiega la signora Gabriele Störkle, della Caritas locale. Sono quelli della Caritas gli unici, in sostanza, a occuparsi dei profughi, ad ascoltarli, a consigliarli. «In teoria i migranti dovrebbero stare qui poche settimane. Ma la realtà è, molto spesso, un’altra». C’è chi sta qui da oltre due anni, perché al rifiuto del diritto d’asilo è seguito un appello che si trascina. Jude Uwudia, per esempio, si trova Manching da 320 giorni. Al Berliner Morgenpost racconta: «Divido la camera con altri sei uomini. Ho paura dei guardiani: non parlano, urlano».
I migranti vengono ascoltati nel giro di 48 dal loro arrivo. «Ma è un’assurdità», insiste la signora Störkle. «Arrivano qui storditi, senza essere consapevoli dei loro diritti, e non riescono quasi mai a dare subito gli elementi più importanti per l’asilo: per vergogna, per paura, per confusione. Nigeriane che erano state obbligate a prostituirsi, omosessuali perseguitati, malati di Aids. Qui ci sono anche persone transgender, ci sono persone con disturbi psichici. Sono i più deboli dei deboli, i più esposti. È una realtà di cui si parla molto poco».
I richiedenti asilo possono uscire, ma nessuno può entrare nel lager di Manching. Le visite sono vietate. Neanche i parenti più vicini dei migranti possono entrare, nemmeno gli avvocati, considerati “visitatori privati”. Le stanze non si possono chiudere («per motivi di sicurezza»), ci si divide un solo bagno e una doccia con molte decine di altre persone.
«Non c’è privacy, non c’è libertà in questo posto», grida Sandra, giacchetta di jeans e blusa bianca, nigeriana pure lei.
Lo spiega bene Gabriele Störkle: «Ci si sente impotenti, non si può decidere niente per conto proprio. Il fatto di vivere in spazi così ristretti provoca continuamente conflitti tra i migranti, anche per fatti minimi. È la rabbia che esplode». Le autorità bavaresi teorizzano proprio questo: i centri di ancoraggio “devono” essere inospitali, respingenti. Si crede, così, di indurre altri potenziali migranti a restare a casa loro. È lapidaria, la signora Störkle: «È dura sostenere che qui venga rispettata la dignità dell’uomo».
Il consiglio per i profughi della Baviera ha calcolato che circa un terzo di coloro che finiscono a Manching svanisce nel nulla.
Destinazione finale: criminalità, lavoro nero, sfruttamento.
«Questa è un’area molto ricca», dice Tobias Betz, reporter dell’emittente Br: «Collocano questi centri lontano dagli occhi degli abitanti, in zone industriali o abbandonate per evitare il contatto con la popolazione. È per paura dell’Afd, che fa propaganda sui temi dell’immigrazione. Ma la Csu non sembra che trarrà grande vantaggio da questa strategia: in tema populismo gli elettori in genere preferiscono l’originale».
Per le autorità bavaresi, l’intento era di «creare uno spazio in cui i richiedenti asilo trovino pace rispetto a influenze esterne».
Tobias fa notare anche un altro dettaglio: «Vede la rete del campo centrale? All’inizio c’era il filo spinato. Qualcuno ha fatto notare che in Germania quell’immagine ha un effetto devastante. Per fortuna l’hanno tolto». Fuori dalla rete di ferro, il giovane King David racconta con poche parole e gli occhi spalancati che ha percorso mezz’Africa partendo dal Biafra, è sopravvissuto alla Libia e al gommone sul Mediterraneo, è sbarcato a Lampedusa, poi ha attraversato, chissà come, l’Italia.
«Non so cosa ne sarà di me. Non so cosa fare». Ora socchiude gli occhi: «Questo è un posto cattivo».

* Fonte: ROBERTO BRUNELLI, LA REPUBBLICA[1]

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  1. LA REPUBBLICA: http://www.repubblica.it/

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