Il finto pomodoro. Venduto come italiano, è prodotto in Cina

by Serena Tarabini * | 27 Settembre 2018 10:23

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Trentotto miliardi di chilogrammi, un quarto della produzione totale nei campi trasformati e conservati nel 2016. Una media di 5,2 chilogrammi di frutto trasformato mangiato da ogni essere umano nel 2015. Sono solo alcune delle impressionanti cifre che compaiono nel libro-inchiesta di Jean-Baptiste Malet L’Empire de l’or rouge. Enquête mondiale sur la tomate d’industrie e che fanno del pomodoro l’imperatore del mercato del cibo. «L’intera umanità consuma pomodoro industriale», dice il giornalista, dai ricchi nei ristoranti chic ai poveri dell’Africa, e quindi dopo le civiltà del grano, del riso e del mais descritte dallo storico Fernand Braudel, ora secondo Malet è arrivato il tempo della civiltà del pomodoro. La cui storia è poco conosciuta e piena di aspetti, che oltre a non essere molto noti, allontanano questa epopea dal concetto di civiltà.

SI COMINCIA IN ITALIA e si finisce in Cina, passando per la California. Sono questi i colossi del business rosso: da soli trasformano la metà dei pomodori da industria del pianeta. Per pomodori da industria si intendono i pomodori esclusivamente destinati alla trasformazione in derivati. Che non siano proprio i San Marzano con cui in famiglia si prepara la passata ce lo possiamo già immaginare, ma sono ancora più diversi di quello che ci aspettiamo.

Che tutti si aspettano, autore compreso. Nel suo viaggio-inchiesta Malet fa la conoscenza con un frutto che sta al pomodoro come la mela sta alla pera: creato artificialmente dai genetisti, è oblungo, più pesante e più denso di un pomodoro normale, perché contiene molta meno acqua. Gli agronomi stessi lo chiamano scherzosamente «pomodoro da combattimento»: ha una buccia molto spessa ed è così duro per sopportare lunghi viaggi in camion, la pressione di altre centinaia di chili di frutti che lo sovrastano, gli sballottamenti dei macchinari. Il pomodoro bionico non è prodotto in tutti paesi che ne fanno uso commerciale. Per esempio i Paesi Bassi sono il primo esportatore di salse e ketchup in Europa, dice nel libro Juan José Amézaga, uno dei più importanti commerciati di pomodoro al mondo, ma non un solo pomodoro del suolo fiammingo viene impiegato. Tutto il prodotto utilizzato nelle salse esportate deriva da concentrato importato da altre parti del mondo. Idem la Germania. I pomodori industriali vengono dalla California, dall’Europa o dalla Cina. Un sistema favorito da una legislazione, quella europea, che permette all’importatore di non pagare dazi doganali se il concentrato è importato «a titolo temporaneo», ovvero se una volta trasformato verrà esportato verso paesi extraeuropei. È quello che avviene anche in Italia: grandi quantità di concentrato cinese entrano nello spazio Schengen attraverso i porti italiani, principalmente quelli di Salerno e Napoli, e senza tasse. Una volta reidratato e riconfezionato, cioè inscatolato in barattoli con i colori dell’Italia, viene riesportato fuori dalla Ue. Sull’etichetta della merce, la reale provenienza del concentrato di pomodoro non è mai indicata.

QUI SI COMINCIA A INTRAVEDERE un sistema cresciuto a dismisura, contorcendosi e deformandosi tra le maglie della concorrenza neoliberista e protetto da molte zone d’ombra. Una di queste ha un nome: «Gino», pomodoro mascotte che dalla latta sorride al cliente sollevandosi gli occhiali sotto il cappello. Il marchio Gino è diventato in dieci anni il numero uno del concentrato di pomodoro venduto in Africa. Nonostante la confezione rimandi a un prodotto tipicamente italiano, tra nome e bandiere tricolore, il simpatico Gino mantiene due segreti, che l’etichetta fa i salti mortali per nascondere: il primo è che il concentrato da cui è ricavato viene dalla Cina e dalla Mongolia, il secondo che il distributore è un colosso indiano. In Italia avviene solo la trasformazione del prodotto, che è a carico di Antonio Petti, il più importante acquirente di concentrato in Europa. È lo stesso imprenditore a raccontare con orgoglio al giornalista di essere stato lui ad estendere le esportazioni ai mercati africani. Gino si è rivelato un ottimo business, al punto che la Cina, nelle fattezze del generale Liu, uno dei protagonisti mondiali dell’impresa del pomodoro, ha deciso di imparare a trasformare da sé il suo concentrato. Un tradimento che le ha permesso di soffiare il mercato africano all’industriale italiano. È così che per esempio il Ghana, paese agricolo al 45 per cento, che produce e consuma pomodori e che ha avuto agli albori della sua indipendenza due fiorenti fabbriche di trasformazione, vede soppiantati i suoi pomodori dal concentrato cinese, più economico e resistente, i cui tassi di importazione nel paese sono in continuo aumento.

Petti, per quanto non abbia fatto entrare un pomodoro italiano nel suo impianto di Nocera Umbra, quantomeno produce concentrati tracciabili e non contraffatti, mentre in uno degli stabilimenti cinesi dell’impero del generale Liu l’autore scopre che il concentrato destinato all’Africa viene mescolato a coloranti e additivi come farine di soia, amido e destrosio, quando in base all’etichetta gli ingredienti sarebbero solo pomodoro e sale. Inoltre, quando il concentrato cinese risulta non conforme dal punto di vista igienico, non viene distrutto ma rimandato all’esportatore, che potrà eventualmente rispedirlo altrove. Il libro riporta una serie impressionante di comunicati delle dogane relativi ai sequestri di concentrato marcio ripresi dalla stampa africana.

COME HA FATTO LA CINA a diventare il primo produttore mondiale di concentrato di pomodoro? Malet torna indietro nel tempo fino al 1949, quando l’Esercito popolare di liberazione invade il Turkestan orientale, lo Xinjiang, iniziando una colonizzazione brutale e segreta contro il popolo uiguro. L’esercito cinese sottomette a un controllo militare ed economico un territorio grande tre volte la Francia per mezzo di un un vero e proprio stato nello stato di nome Bingtuan: creano coltivazioni, città, miniere, basi militari, campi di rieducazione. È in questo territorio militarizzato che gli italiani, come novelli Marco Polo, hanno compiuto un enorme trasferimento di tecnologia: lo riforniscono di fabbriche chiavi in mano per poi essere in grado di ricavare concentrato di pomodoro a basso costo, grazie al lavoro sottopagato delle popolazioni locali o persino dei prigionieri. Un vero e proprio patto fra gli italiani e i militari cinesi dello Xinjiang : così è nato Chalkis, il gigante industriale del pomodoro di Bingtuan.

FRODI, SFRUTTAMENTO, DUMPING, lavoro minorile, contraffazioni. Il libro in Francia è stato selezionato per il prestigioso premio Albert Londres. In Italia è stato pubblicato da Piemme con il titolo Rosso Marcio, ma successivamente è stato ritirato dalle vendite a causa di una diffida di una impresa italiana. L’inchiesta di Jean Baptiste Malet è un concentrato di problemi.

* Fonte: Serena Tarabini, IL MANIFESTO[1]

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  1. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

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