Lavoro festivo, un esercito di precari senza diritti e salario

Lavoro festivo, un esercito di precari senza diritti e salario

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Nello strano elastico degli annunci la questione della regolazione delle aperture festive degli esercizi commerciali produce sempre polemiche. Polemiche che – al solito – coprono merito e sostanza dei tanti progetti di legge depositati in parlamento e degli impegni dei ministri. Polemiche che considerano l’aspetto «economico» sempre prima dei diritti dei lavoratori e delle conseguenze sociali delle aperture senza freni.

PARTIAMO ALLORA DAI DATI di fatto ncontrovertibili e dal confronto con il resto d’Europa. Il decreto Monti del 24 gennaio 2012 liberalizzava in toto le aperture degli esercizi commerciali e aveva lo scopo di rivitalizzare i consumi. Obiettivo mai realizzato tanto che nel 2017 i consumi delle famiglie sono calati di 5 miliardi di euro.
Sull’aspetto occupazionale non esistono cifre affidabili. Basta però farsi un giro negli outlet e negli iper aperti 24 ore – come abbiamo fatto – per sapere che le commesse degli outlet lavorano tutti i festivi (quasi sempre pagati come giorni normali) e vengono trasferite o punite se chiedono una domenica al mese libera, mentre negli iper e supermercati la gran parte dei lavoratori sono soci di false cooperative che lavorando alla domenica hanno al massimo in cambio mezza giornata di riposo.

NEGLI ULTIMI ANNI È CADUTO ogni freno al liberismo imperante: si lavora sempre, 25 aprile e primo maggio sono state le prime vittime e ora si è persino arrivati a lavorare a pasqua e natale.

Secondo la Cgia di Mestre chi lavora a lavorare la domenica sono 4,7 milioni di lavoratori di cui 3,4 milioni dipendenti. Il 29,6 per cento di questi – pari a circa 1,4 milioni – operano nel commercio. Di questi – e solo di questi – si sta parlando. Elencare i mestieri che devono lavorare la domenica è forviante: nessuno vuole limitare i servizi essenziali. Ma fare la spesa o lo shopping non ne fanno parte.

L’ITALIA – CON L’USCENTE Inghilterra – è l’unico stato dell’Unione europea a prevedere totale liberalizzazione. In Francia e Germania trovare una serranda (commerciale) alzata la domenica pomeriggio è quasi impossibile. Perfino l’Istituto Bruno Leoni, culla del liberismo nostrano, riconosce che «l’Italia appartiene al gruppo dei paesi con una disciplina maggiormente concorrenziale (…) che ci vede al fianco di Stati quali Danimarca, Finlandia e Svezia».

DOPO GLI INCREDIBILI NUMERI spacciati dall’inaffondabile Mario Resca, ora presidente di Confimprese, che parlavano di 400 mila posti di lavoro a rischio nel caso di chiusure domenicali, ora il presidente di Federdistribuzione Claudio Gradara ha abbassato a 30-40 mila. Sempre troppi per i sindacati. Che invece registrano un calo. «Negli ultimi anni nella grande distribuzione, in una situazione di liberalizzazione indiscriminata, si è assistito ad una riduzione dell’occupazione pari almeno al 20 per cento, al quale si deve aggiungere il dato relativo alla diffusione di processi di terziarizzazione ed esternalizzazioni di parti rilevanti delle attività commerciali», afferma Maria Grazia Gabrielli segretaria generale della Filcams Cgil.

È LA PRECARIETÀ A FARLA DA padrona. «Il 40% dei lavoratori è con contratti a termine, lavoro somministrato, lavoro a chiamata e indiretto, stage, merchandiser e promoter. E circa il 70% dei lavoratori ha un rapporto di lavoro part time involontario», continua Gabrielli. «I lavoratori coinvolti dall’obbligatorietà del lavoro domenicale e festivo raggiungono circa il 35-40% degli addetti e le maggiorazioni previste dai contratti hanno subito negli anni drastiche riduzioni per le difficoltà del settore», conclude.

GIÀ NELLA SCORSA LEGISLATURA si era arrivati a votare un testo di legge bipartisan per regolare le aperture. «Chiusure per 12 giorni – tutte le festività laiche e religiose – l’anno con deroga fino a sei giorni». Oggi è il Pd a fare retromarcia.

* Fonte: Massimo Franchi, IL MANIFESTO



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