Libia, a Tripoli sconfitto anche il «Paese guida» Italia

Libia, a Tripoli sconfitto anche il «Paese guida» Italia

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Uno studio dell’Ispi di Milano sostiene che bisogna ripensare al ruolo delle milizie nei negoziati: è giunto il momento di chiedersi se non sia l’intero processo politico a dover essere rivisto, coinvolgendo in particolare quegli attori che sono spesso stati esclusi o almeno formalmente relegati ai margini

Tripoli addio? Sarà anche colpa delle ambizioni francesi sulla Cirenaica, dell’incapacità dell’Ue di marciare unita nel Mediterraneo, del sostanziale disinteresse americano, ma l’instabilità e gli errori che commettiamo in Libia sono anche italiani e derivano da due realtà che facciamo fatica a riconoscere sette anni dopo la caduta di Gheddafi. 1) L’Italia qui ha subìto la sua più grave sconfitta dalla seconda guerra mondiale e poi ha contribuito ad abbattere il suo maggiore alleato nel Mediterraneo partecipando ai raid della Nato.

Sulla sponda Sud siamo quindi poco credibili: abbiamo abbandonato al suo destino il «nostro» raìs, che sei mesi prima, il 30 agosto 2010, ricevevamo a Roma in pompa magna ingolositi da affari per miliardi.

2) La Libia non è più da un pezzo un solo Paese ma almeno due e la Cirenaica del generale Khalifa Haftar va per conto suo sostenuta da Egitto, Francia, Russia, Emirati, avversari dei Fratelli Musulmani che a Tripoli puntellano il governo di Fayez al Sarraj. Nonostante quello di Tripoli sia il governo libico internazionalmente riconosciuto, nella realtà non lo appoggia quasi nessuno, se non l’Italia perché costretta a venire a patti sui flussi dei migranti.

Il ritornello dei governi italiani, anche di quello attuale, è che sulla Libia siamo più informati di tutti e siamo pure il «Paese guida»: di che cosa non si sa. È vero che con l’Eni siamo il maggiore produttore di petrolio ma questo accade perché siamo stati obbligati a venire ad accordi con le milizie armate, non con Sarraj. Gli Stati Uniti hanno così illuso i governi Renzi, Gentiloni e ora pure quello di Conte con finte investiture di un nostro ruolo libico assai contestato.

A Tripoli ci sono stati da poco due ministri italiani, Salvini e Moavero, ma non sembra che si siano accorti di nulla. Il ministro degli Interni ha proclamato: «Trattiamo solo con i governi riconosciuti». Ecco vada un po’ a chiedere adesso una mano a Orbán per rimettere piede in Libia.
Andiamo male come Paese perché da un pezzo la nostra classe dirigente non solo è arrogante e ignorante (nel senso che ignora le situazioni) ma pure sorda perché non ascolta, non legge, non si informa.

L’unico punto su cui l’Italia ha ragione è stato quello di opporsi alla convocazione di elezioni il 10 dicembre perché in Tripolitania non ci sono le condizioni: ma questa dichiarazione è venuta soprattutto dal nostro ambasciatore Giuseppe Perrone e gli è costata l’ostilità degli attori principali, interni ed esterni, che agiscono in Cirenaica.

È vero le condizioni per elezioni credibili non ci sono in Tripolitania, ma intanto Bengasi e Tobruk a dicembre andranno per conto loro con l’appoggio di Parigi, Mosca e soprattutto del Cairo, interessato con il generale-presidente Al Sisi a farsi la sua «fascia di sicurezza» al confine.

Da questo punto di vista anche il viaggio di Di Maio in Egitto, dove è stato sepolto Regeni una seconda volta, è servito a poco. Il raìs egiziano si è trovato gli alleati giusti: i francesi che hanno i loro interessi petroliferi in Cirenaica, i russi che puntano a nuove basi nel Mediterraneo, gli stessi Stati Uniti che vedono come fumo negli occhi i Fratelli Musulmani (che un tempo appoggiavano) ostili all’Arabia Saudita, insieme a Israele maggiore alleato di Washington nella regione.
In queste condizioni geopolitiche sfavorevoli, l’Italia fa accordi con un governo di Tripoli ridotto a un ectoplasma: in un anno ci sono stati una decina di tentativi di buttarlo a mare (da dove era venuto con le nostre navi).

Eppure a questo governo da operetta consegniamo, con un voto in Parlamento a stragrande maggioranza, 12 motovedette italiane in linea con quanto fatto dal precedente governo Gentiloni, il primo a stringere accordi con la controversa Guardia costiera libica, accusata di essere legata ad attività criminali, tra cui il traffico di esseri umani, ormai un’industria concentrata in aree a ovest di Tripoli, tra Sabratha e le cittadine circostanti, o immediatamente a est, tra Misurata e Gasr Garabulli.

Come tentare di riprendere in mano la situazione libica? Trasformando gli attori militari in politici o almeno veicolando le loro istanze nelle trattative. Uno studio dell’Ispi di Milano sostiene che bisogna ripensare al ruolo delle milizie nei negoziati: è giunto il momento di chiedersi se non sia l’intero processo politico a dover essere rivisto, coinvolgendo in particolare quegli attori che sono spesso stati esclusi o almeno formalmente relegati ai margini. Ben sapendo che questo, come dimostra il precedente della Somalia, comporta interrogativi e pericoli che devono essere attentamente valutati dai responsabili politici di una diplomazia della quale non si vede traccia.

Altrimenti il rischio nelle riunioni internazionali è quello di confrontarsi con esponenti che hanno un controllo inesistente del territorio: per questo gran parte degli accordi rimane carta straccia e la Libia continua a presentarsi alla comunità internazionale e soprattutto all’Italia come un ingovernabile «scatolone di sabbia», una sorta di maledizione secolare.

* Fonte: Alberto Negri , IL MANIFESTO

photo: By Elizabeth Arrott [Public domain], via Wikimedia Commons



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