Siria, si profila una “rappresaglia umanitaria” in salsa turca e tedesca

by Alberto Negri * | 12 Settembre 2018 10:33

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Ora che questo sogno è in crisi, a Berlino riaffiorano ipotesi come quella dei raid in Siria e quella di un esercito europeo

Che la Siria sia già da tempo una crisi umanitaria lo dicono i numeri: 5,6 milioni di rifugiati all’estero e 6 milioni di sfollati interni. Ma ora serve anche una «rappresaglia umanitaria» per salvare la faccia a Erdogan e alla comunità internazionale per la vittoria probabile di Assad e dei russi nella battaglia di Idlib.

E così si stanno costruendo le prove di un attacco chimico o con il gas del regime di Damasco. Ai bombardamenti americani, oltre a Francia e Gran Bretagna, si potrebbe unire, su richiesta Usa, persino la Germania, secondo indiscrezioni dei giornali tedeschi (smentite dai capi della Spd).

«C’è davvero il timore, in Siria e a Idlib in particolare, che si ripetano indegni schemi già visti e che centinaia di migliaia di persone siano in pericolo. Di questo stiamo parlando con i partner americani», ha detto il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, rispondendo alle indiscrezioni pubblicate dalla Bild su un’eventuale partecipazione tedesca a un’azione militare in Siria sullo stile di quella dell’aprile scorso.

Insomma è il trionfo, a parole, dell’umanitario uber alles ma anche del ricatto e dell’ipocrisia di Ankara che minaccia ondate di profughi e di foreign fighters jihadisti in Europa dopo averne fatti passare a migliaia dai suoi confini: «Un prezzo salato che pagheranno tutti se non fermeranno Assad», scrive sul Wall Street Journal l’acuminata penna di Erdogan.

La verità è che il presidente turco, con 3,5 milioni di profughi siriani in casa, la faccia in Siria l’ha già persa da un pezzo. Mosca e Teheran lo hanno accontentato lasciando che conquistasse il cantone curdo di Afrin ma adesso non hanno intenzione di cedere più di tanto.

Il patto a tre prevedeva che Erdogan liberasse Idlib e provincia dai jihadisti ma Ankara non ha mantenuto la parola e adesso oltre ai combattenti della filiale siriana di Al Qaeda (Hayat Tahrir al-Sham) faranno le spese dell’offensiva anche le milizie filo-turche come quelle del Free Syrian Army con cui la Turchia si illudeva di abbattere Assad o comunque di sedersi a un tavolo con i suoi protetti per la spartizione della Siria.

È questo che brucia a Erdogan. Saranno infatti i suoi alleati a cadere per primi quando inizierà l’offensiva a sud di Idlib. Cosa brucia agli americani? A 17 anni dall’11 settembre non basta riaprire la stazione della metro a Ground Zero, serve qualcosa di più sostanzioso per dimostrare di essere ancora i primattori della lotta al terrorismo. Il consigliere della Sicurezza nazionale John Bolton ha mandato il pre-avviso di reato a Damasco: «Sappiamo che useranno armi proibite per provocare una catastrofe umanitaria».

Ma soprattutto gli Usa devono giustificare la presenza di oltre 2mila uomini nel Nord della Siria che dovrebbero bloccare l’avanzata di Erdogan contro i curdi, alleati di Washington, e dare la caccia all’Isis. Gli americani in realtà sono lì per garantire che le milizie iraniane non si avvicinino al confine con Israele.

E il premier israeliano Benjamin Netanyahu vorrebbe che gli Usa negoziassero con Putin un ritiro dell’Iran e la sospensione delle forniture di missili a Hezbollah. Più che la lotta al terrorismo jihadista per Washington conta la sicurezza di Netanyahu che sostiene a spada tratta Trump dopo lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme.

Cosa brucia invece dalle parti della signora Merkel che vedrà Erdogan alla fine di settembre? I due hanno parecchio da dirsi dopo le tensioni recenti ma la Germania è anche il Paese che ha voluto l’accordo tra la Turchia e l’Unione per tenersi i profughi siriani (6 miliardi di euro) e ora il leader turco cerca una sponda europea per salvarsi dai debiti, contratti in prevalenza con banche europee, e arrestare la caduta della lira. Erdogan non piace all’Europa ma la Ue dovrà in qualche modo tenere in piedi la sua economia.

Certo non basta questo ragionamento per unirsi a rappresaglie contro la Siria. Però la Germania, che partecipa a missioni militari in Afghanistan, Mali, Sudan, forse aspira un giorno a guidare delle forze armate europee. Un articolo su Foreign Policy l’annunciava l’anno scorso con un titolo un po’ allarmista: «La Germania ricostruisce un esercito europeo sotto il suo comando». Il riferimento era soprattutto alle partnership tra la Bundeswehr e gli eserciti di Repubblica Ceca, Paesi Bassi, Norvegia, Romania, Austria.

Sotto tutela militare per decenni e figlia di un pacifismo dettato dalla storia, nell’ultimo quarto di secolo la Germania ha fortemente creduto nel sogno di una globalizzazione che fosse garanzia, se non di una pacificazione mondiale, di relazioni internazionali meno conflittuali. Ora che questo sogno è in crisi, anche in Germania riaffiorano ipotesi come quella dei raid in Siria, tra l’altro in una fase assai delicata di avanzata del revanscismo nazional-identitario.

Per il momento abbiano solo qualche certezza economica. Considerando il Pil tedesco, se la Germania punterà davvero al 2% di spesa militare entro il 2024 – così come richiesto dalla Nato – la Bundeswehr potrebbe arrivare a contare sul terzo budget militare al mondo, inserendosi eventualmente dopo Stati uniti e Cina e prima di Regno Unito, Russia, India e Francia. Una posizione curiosa per un Paese che non dispone di un arsenale nucleare. E forse la Siria, con l’eventuale rappresaglia umanitaria potrebbe essere soltanto una scusa per il riarmo.

La verità del momento è che la Turchia di Erdogan è con le spalle al muro. L’afflusso dei profughi può diventare devastante e Ankara proverà comunque a dare una mano ai suoi miliziani in Siria visto che ha già rafforzato la presenza militare nei 12 avamposti di osservazione istituiti nell’ambito degli accordi di Astana con Russia e Iran.

E ora Erdogan si gioca un’altra carta promuovendo a Istanbul venerdì una riunione sulla crisi di Idlib con Russia, Germania e Francia. Un terzo forum, dopo quello di Astana e Ginevra, significa che forse la diplomazia non ha più tante carte da giocarsi.

* Fonte: Alberto Negri, IL MANIFESTO[1]

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