The future of Jobs 2018: «I robot creeranno 133 milioni di posti di lavoro entro il 2022»

The future of Jobs 2018: «I robot creeranno 133 milioni di posti di lavoro entro il 2022»

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Il rapporto «The future of Jobs 2018) del World Economic Forum (Wef), reso noto ieri, rovescia il senso comune apocalittico che accompagna da un quinquennio la cosiddetta «quarta rivoluzione industriale»: l’automazione, la robotica, la rivoluzione digitale non cancelleranno solo posti di lavoro, non creeranno lo scenario angosciante della disoccupazione di massa, aumentando le diseguaglianze senza rimedio. In termini generali è invece annunciata la creazione di 133 milioni di posti di lavoro, poco meno del doppio di quelli che nel frattempo saranno perduti, superati o sostituiti da processi di automazione (75 milioni). Dunque, il saldo netto sarà di 58 milioni.

NON È LA PRIMA VOLTA che uno studio del Wef affronta in maniera più problematica, e meno allarmistica, uno dei problemi più discussi nel capitalismo digitale: la possibile sostituzione integrale del lavoro umano da parte delle macchine di nuova generazione. Già un precedente rapporto del 2016 aveva drasticamente ridimensionato la previsione che ha nutrito fior di pubblicazioni, non solo per economisti specializzati ma per il grande pubblico dell’editoria e della Tv. Una su tutte: nei prossimi dieci anni il 47% dei lavoratori rischierà di perdere il lavoro negli Stati Uniti. Tale possibilità riguarda 702 occupazioni. Era il 2013, la previsione di Carl Frey e Michael Osborne allora fece epoca. Il dibattito si è infuocato e, nel corso degli anni, sono state diffuse altre previsioni. Nel 2014 più di ottocento economisti su 1900 sostennero in una ricerca del Pew Research Center che le applicazioni interconnesse ai supporti robotici avrebbero distrutto più lavori di quelli creati entro il 2025. Nel corso dello stesso anno altri economisti fornirono per il forum Igm un parere opposto: l’automazione è una delle cause della stagnazione dei salari mediani, nonostante la crescita della produttività del lavoro, ma storicamente non ha ridotto l’occupazione. Uno studio dell’Ocse, pubblicato nel 2016, ha confermato l’impatto modesto dell’automazione in Europa dove il 9% dei lavori in media è a rischio di piena o parziale automazione: in Germania il 12%, in Italia è il 9% in Finlandia il 6%. Secondo un rapporto McKinsey del 2017 («Harnessing automation for a future that work») solo il 5% di tutte le professioni sarà sostituito integralmente dalle macchine. In generale si opta per la tesi per cui l’attuale ondata dell’automazione non è caratterizzata da un basso tasso di sostituzione tra vecchi e nuovi impieghi.

L’ANALISI DEL FORUM economico mondiale, quello che organizza il vertice annuale di Davos, è il risultato di un sondaggio effettuato tra aziende che rappresentano 15 milioni di lavoratori in 20 paesi diversi. Eliminata dal campo discorsivo il registro apocalittico con il quale, di solito, si discutono questi argomenti, resta però da capire la qualità dei lavori che potrebbero essere prodotti nella rivoluzione digitale in corso. Di solito si sostiene che a sparire saranno gli impieghi medio-bassi più ripetitivi, mentre quelli a più alto contenuto di competenze saranno di meno ma più ricercati. Anche su questo punto il rapporto si mostra più equilibrato: il 42% delle mansioni potrebbero essere svolte dalle macchine entro il 2022 (oggi sarebbe il 29%), mentre la forza lavoro potrebbe lavorare una media di 58 delle ore di lavoro entro il 2022, rispetto all’attuale 71%. La natura di queste previsioni è approssimativa ma va compresa alla luce del dibattito tra chi afferma un legame diretto tra l’automazione e la perdita di posti di lavoro e chi attribuisce all’automazione digitale un ruolo nel taglio dei salari e esclude che produca direttamente un calo dell’occupazione. Il rapporto del Wef è prudente: ci sarà sia la proliferazione degli impieghi precari freelance e intermittenti, quelli coordinati via algoritmo sulle piattaforme digitali (la cosiddetta «economia dei lavoretti»: gig economy). E ci sarà anche un’intensificazione dell’automatizzazione delle mansioni. Si tratta di una previsione ambivalente che non chiarisce la natura della nuova divisione capitalistica del lavoro in cui la forma generale è quella del lavoro povero o sottopagato, mentre quella tecnologica prevede un’intensificazione del rapporto tra essere umano e algoritmo.

IN QUESTA CONFIGURAZIONE il salario e la qualità del lavoro dipendono dalla «produttività» accresciuta del soggetto, ovvero dalla sua capacità di «riqualificarsi» e di essere accompagnato da tutele per i lavoratori a rischio. È il modello della «formazione continua» del «capitale umano» che obbliga una forza lavoro intesa come «imprenditrice di se stessa» ad essere «attiva» e «motivata» anche quando perde il lavoro e deve cercarsene un altro. L’emancipazione da questo modello alienante passa da una rivoluzione nel nostro rapporto con le macchine, con la loro proprietà e con noi stessi.

*** Bassi salari e lavori poveri: il futuro dell’ex classe media

* Fonte: IL MANIFESTO



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