Il workfare penale all’italiana. Il sussidio di povertà prevede il «reato di cittadinanza»

Il workfare penale all’italiana. Il sussidio di povertà prevede il «reato di cittadinanza»

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Nel giorno delle critiche al Documento di Economia e Finanza (Def) da parte della Commissione Europea sono emersi altri dettagli sulla misura simbolo del cosiddetto “reddito di cittadinanza” al centro dello scontro sui conti. Il sottosegretario agli Affari Regionali Stefano Buffagni (M5S) ha inventato un nuovo reato: “falso in reddito di cittadinanza”. Nel Def prospettive miracolistiche sui centri per l’impiego. Sulla carta tutto quello che non è accaduto negli ultimi 40 anni dovrà avvenire tra gennaio e marzo 2019

Il sussidio di ultima istanza contro la povertà assoluta chiamato impropriamente «reddito di cittadinanza» sancisce l’introduzione della «cittadinanza digitale» e «apre le porte all’innovazione per il singolo cittadino». Questa pretesa infondata è contenuta nel Documento di Economia e Finanza (Def) ieri criticato dalla Commissione Europea.

LA «CITTADINANZA DIGITALE» è considerata un avatar del «cittadino» in carne ed ossa, il suo completamento simbiotico destinatario di pratiche amministrative (firma e identità digitale, carta di identità elettronica, la Pec e altro) ed è stata formalizzata nel diritto italiano nel 2005 quando fu introdotto il «codice dell’amministrazione digitale». Da gennaio 2018 è prevista una «carta della cittadinanza digitale» che auspica la semplificazione nell’accesso ai «servizi alla persona», «riducendo la necessità dell’accesso fisico agli uffici pubblici».

AL DI LÀ DELLA CONSISTENZA di queste promesse – che permettono l’accesso ai servizi di circa 3.800 amministrazioni – il Def conteneva in realtà un’«innovazione»: la creazione di un governo di 3,6 milioni di «poveri assoluti» italiani, escludendo 1,6 milioni stranieri tranne un numero di stranieri residenti da 10 anni. A queste persone non si riconosce la «cittadinanza politica», ma la cittadinanza del consumatore obbligato a scegliere tra prodotti e servizi stabiliti dallo Stato spendendo un sussidio digitale accreditato su «un bancomat normale, non su una card che è umiliante» ha detto il vicepremier Luigi Di Maio. Come sarà confermato, tra poche settimane, da uno dei dodici collegati alla legge di bilancio annunciati nel Def, la cifra accreditata sul bancomat sarà il risultato della differenza tra il tetto di 780 euro e i limiti patrimoniali e reddituali Isee. Dovrà essere spesa interamente nei circuiti di spesa autarchici, altrimenti c’è una penalizzazione. Di Maio ha confermato che non ci sarà alcuna esenzione dal sussidio di povertà per le persone che non lavorano ma hanno una casa di proprietà. L’assegno sarà calcolato in base a un «affitto imputato»: il valore del patrimonio individuale non espresso dal reddito o da altre entrate, la presunzione di quanto costerebbe di affitto la casa di proprietà a prezzo di mercato. Tranne nei casi di nullatenenza accertata, la media dei sussidi per i forzati del consumo di povertà sarà più che dimezzata.

LA «CITTADINANZA DIGITALE» che nasce sarà programmata in base all’esperienza in un centro commerciale e controllata dalla guardia di finanza che dovrà sorvegliare e punire eventuali frodi di chi lavora in nero. La pena annunciata da Di Maio è «sei anni». Il sottosegretario agli Affari Regionali Stefano Buffagni ha aggiunto una postilla a questo nuovo stato penale digitale: «Per i furbi ci sarà il reato di “falso in Reddito di Cittadinanza” oltre a controlli seri e automatizzati, grazie alla digitalizzazione dei trasferimenti monetari». La violenza di questi avvertimenti è pari solo al silenzio che il governo continua ad avere su chi costringe a lavorare in nero. Un atteggiamento inversamente proporzionale si riscontra invece per chi dovrebbe rientrare nel condono chiamato, eufemisticamente, pace sociale. Per i «poveri», nessuna pace, solo accanimento.

Il «CITTADINO DIGITALE» sarà sospettato di essere moralmente inaffidabile, è potenzialmente colpevole finché non avrà dimostrato di essere capace di spendere tra due e quattrocento euro in media. Ai beneficiari del sussidio di povertà è chiesto di cedere diritti in cambio della promessa di trovare un lavoro a tempo indeterminato. Questa convinzione è così forte da avere spinto il governo a prospettare una discesa dei fondi per il «reddito» già a partire dal 2020 per finanziare ila «quota 100» e la «flat tax» cari alla Lega. Una scommessa che trascura la realtà del mercato del lavoro e le reali prospettive della crescita del Pil. Spesa complessiva per il 2019: 9 miliardi di euro, 0,9% del Pil annuo fino al 2021 e circa uno per i centri per l’impiego. Ciò che manca si dice sarà finanziato con il taglio dello 0,2% del Pil, in parte dalla spesa dei ministeri. Bruxelles non è stata convinta da questi calcoli, al netto delle argomentazioni ideologiche che hanno scambiato ingiustamente questo workfare neoliberista (in linea con l’Ue) per una misura «assistenzialistica».

DI MAIO VORREBBE avviare questo sistema «entro marzo». In tempo per le elezioni europee 2019, vera posta in palio in questo scontro con la Commissione Ue. Sarà necessaria una riforma epocale dei centri per l’impiego. Sulla carta tutto quello che non è accaduto negli ultimi 40 anni dovrà avvenire tra gennaio e marzo 2019. Il Def non spiega il miracolo. Non fissa la data delle assunzioni del personale qualificato, in aggiunta alle 10 mila (per 1,5 miliardi di costo) tra le forze dell’ordine. È ancora incerto chi dovrebbe formare questo personale, in quali tempi sarà effettuato «l’adeguamento dei locali dal punto di vista strutturale» dei 550 centri esistenti. Né si forniscono suggestioni sulla realizzazione del sistema informativo unitario tra enti diversi necessario all’avvio della «riforma». Nella vaghezza di tutto questo agitarsi intorno al sussidio di povertà negli ultimi giorni si sono moltiplicati episodi singolari, presentazioni sensazionali dal balcone di Facebook, comunicazioni entusiastiche ispirate al wishful thinking aziendale. Va ricordata la stretta di mano con il professore italo-americano Mimmo Parisi creatore della «app» capace di fare incontrare la domanda e l’offerta di lavoro nel Mississippi, lo Stato americano preso ad esempio dai Cinque Stelle per annunciare la lieta novella delle “politiche attive” anche in Italia. C’è stato anche il discorso motivazionale dell’ex manager Amazon, commissario all’agenda digitale uscente, Diego Piacentini sull’«implementazione» digitale del sussidio che i cittadini poveri dovranno conquistarsi in cambio di otto ore di lavoro gratuito a settimana, corsi di formazione obbligatori, accettando un’offerta di lavoro su tre pena l’esclusione.

Il GOVERNO NON CEDERÀ, e insisterà su questi progetti. Potrebbe finire così. Se, e quando sarà approvata la manovra, ad aprile i destinatari del sussidio di povertà saranno le cavie di un esperimento digitale poderoso che progredirà, se sarà in grado di farlo, grazie all’interazione con i soggetti beneficiari. La «manovra del popolo» sembra agire come l’algoritmo nella rivoluzione digitale: apprende dai comportamenti degli umani e li sfrutta per accrescere il suo valore. Qui non è quello privato delle piattaforme, ma politico del governo che deve dimostrare che il sistema funziona e i poveri sono «occupati» messi al lavoro in quello che si prefigura come il workfare penale all’italiana.

* Fonte: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO

photo: By SjurPapa [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], from Wikimedia Commons



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