La poesia che libera uomini e popoli
di Sergio Segio
«Giocare col mondo facendolo a pezzi / bambini che il sole ha ridotto già vecchi» cantava nei primi anni Settanta Demetrio Stratos, con la sua band italiana Area, nella canzone Luglio, agosto, settembre (nero) dedicata al dramma del popolo palestinese. Anche grazie alla musica e alla poesia, cresceva in quei tempi l’indignazione e la solidarietà internazionale per il lento strangolamento di un popolo, le cui forze organizzate tentavano, pur nelle divisioni, una lotta di liberazione di lunga durata.
Settanta anni dopo la Nakba i palestinesi ancora vivono – o, meglio, faticosamente sopravvivono – in un’ininterrotta e sanguinosa tragedia, in apparenza sempre più priva di soluzioni, mentre la partecipazione e il cordoglio del mondo si sono smarriti nel secolo scorso. La musica si è spenta. E, come sempre accade, dal silenzio i tiranni ricavano più forza per soffocare nel sangue le proprie vittime.
Dal settembre 2000 alla fine del 2017 i governanti di Israele hanno fatto uccidere 10.463 uomini, donne, anziani e ragazzi di Palestina. Nei primi quattro mesi del 2018 ne hanno fatti arrestare 2378, tra cui 459 minorenni. In una sola giornata, il 14 maggio 2018, i cecchini di Tsahal hanno assassinato a Gaza 59 palestinesi, otto avevano meno di sedici anni, una bambina di otto mesi è stata uccisa dai gas lacrimogeni. Droni contro aquiloni, una guerra impari e infame. Altri 49 erano stati uccisi il 30 marzo, nel giorno di inizio delle proteste e della “Marcia del Ritorno”.
Il mondo, dunque, è sempre più a pezzi e i bambini non possono più diventare vecchi. Il cinico potere di Erode sembra ormai incontrastato, non ci sono armi o rivolte, pressioni o appelli capaci di frenarlo.
Quando un uomo viene integralmente spogliato di ogni diritto, quando un popolo viene privato di ogni pur minima libertà e si trova costretto a vivere in un campo di concentramento come a Gaza, quando la vita di milioni di persone pesa meno di una piuma, quando il mondo gira la testa da un’altra parte, quando l’unica reazione significativa a livello diplomatico alle stragi di Gaza arriva da un altro stragista e oppressore di popoli come il turco Recep Tayyip Erdoğan, allora, la verità e la giustizia sembrano ingannate e scomparse, tutto sembra inutile e perduto.
Invece, pure in questi terribili e disperanti momenti, è ancora possibile combattere e resistere, con le armi più potenti di tutte: la parola, la letteratura, la poesia. Ce lo ricordano in questo numero di “Global Rights” diversi scrittori e narratori palestinesi: Talal Abu Shawish, che proprio in un campo profughi di Gaza è nato; Refaat Alareer e Nayrouz Qarmout, che a Gaza tuttora vivono; Huzama Habayeb, nata in Kuwait, giordana di cittadinanza ma di nazionalità palestinese. E come loro ce lo testimoniano qui altri scrittori che hanno conosciuto la violenza dell’oppressione nel Kurdistan siriano come Haitham Berria, o nello Sri Lanka come V.I.S Jayapalan.
Narratori che sono talvolta cresciuti con un sasso in una mano, durante una Intifada, e un libro nell’altra. I lacrimogeni della repressione non hanno offuscato la loro vista, la violenza dell’occupazione non li ha zittiti. Hanno reso semmai più acuto il loro sguardo, maggiormente acuminate le loro penne, accresciuta la loro possibilità di raccontare il calvario, l’esodo e la ricerca della libertà e soprattutto hanno resa profonda e feconda la loro capacità di scavare nelle coscienze, di togliere alibi, di usare sino in fondo la potenza della letteratura.
La poesia da sempre abita sulle barricate e accompagna le rivoluzioni. Quando esse vengono poi tradite, appassisce e si spegne, ma non muore mai. Rinasce in eterno come araba fenice. Rispunta a sorpresa in un’altra cella di prigione, in ogni altra parte dove l’umanità viene oppressa e torturata, in ogni luogo e tempo in cui uomini e donne reclamano vita e dignità.
Qui il numero del magazine Global Rights in inglese, scaricabile gratuitamente
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