Nel campo profughi di Shuafat le ruspe israeliane distruggono i negozi

by Michele Giorgio * | 22 Novembre 2018 10:06

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GERUSALEMME. «Nel nostro campo i funzionari civili del comune non si sono visti per anni e la polizia qui ci viene solo per arrestare qualcuno» ci spiega aspirando forte la sigaretta Jawad Malhi, profugo residente nel campo palestinese di Shuaffat e pittore di talento. «All’improvviso – aggiunge – poco più di un mese fa (l’ex sindaco israeliano di Gerusalemme) Nir Barkat è venuto portandosi dietro i netturbini del comune affermando di voler cacciare via l’Unrwa (Onu) per affermare il controllo israeliano su Shuafat. Abbiamo capito cosa intendeva per controllo sul campo, parlava delle ruspe che buttano giù le nostre case». I bulldozer a Shuafat sono arrivate poco prima dell’alba, protette da dozzine di agenti dei reparti antisommossa, per demolire una ventina di piccoli negozi costruiti senza permesso 10-12 anni fa non lontano all’ingresso del campo sorvegliato in entrata e in uscita dalla polizia di frontiera come fosse un carcere. In poche ore hanno ridotto in un ammasso di pietre e metalli aggrovigliati le uniche fonti di reddito per tante famiglie. «Vendevo scarpe e borse da donna. Era abusivo ma io ci vivevo con quel negozio, ci sfamavo la famiglia. Gli israeliani non si sono mai occupati di Shuafat e ora mi buttano giù il negozio. Hanno consegnato l’ordine di demolizione a me e a tutti gli altri appena 12 ore prima. Ho avuto il tempo di salvare solo poche cose», si lamenta Amr Alkan, uno dei commercianti colpiti dal provvedimento.

Sono tanti gli interrogativi intorno a questo improvviso “bisogno di legalità” e di lotta all’“abusivismo edilizio” delle autorità israeliane a Shuafat, campo per rifugiati dove le case, in origine circa 500, sono cresciute verticalmente per ospitare le nuove generazioni di profughi. Shuafat è un ammasso di case separate da viuzze strette e colme di rifiuti, schiacciate tra la strada che da Gerusalemme porta a Gerico e le colonie israeliane costruite alla periferia nella zona araba (Est) della città. I suoi abitanti – circa 26 mila secondo l’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi – sono residenti a Gerusalemme e hanno la carta d’identità rilasciata dal ministero dell’interno israeliano. Al suo interno però vivono anche tante famiglie povere, non profughe, che non possono permettersi gli affitti in città.

Nel corso degli anni Shuafat è divenuto anche un luogo per il traffico di stupefacenti e per altre attività illecite, complice il suo stato di abbandono e gli israeliani che lasciano intendere di voler sganciare il campo e i suoi abitanti da Gerusalemme. Non per caso davanti al campo è stato innalzato il Muro di separazione. «Ci attendiamo l’annuncio della revoca della nostra residenza a Gerusalemme e il trasferimento del campo forse all’Autorità nazionale palestinese. Il Muro per noi è stato un segnale preciso» dice Jawad Malhi «poi qualcosa è cambiato – aggiunge – Il comune dice di volersi sostituire all’Unrwa per i servizi, a cominciare dalla raccolta dei rifiuti. Gli israeliani inoltre stanno svolgendo un censimento degli abitanti e degli edifici e hanno cominciato ad assegnare alle nostre stradine dei nomi. Siamo sorpresi e confusi».

Il cambiamento incomprensibile di cui parla il pittore palestinese si chiama Donald Trump. Da quando il presidente americano ha cominciato la sua offensiva contro le Nazioni unite e ha tagliato i fondi Usa all’Unrwa – con l’intento evidente quanto velletario di cancellare, d’accordo con Israele, la questione dei profughi palestinesi delle guerre del 1948 e 1967 – il comune di Gerusalemme, per bocca dell’ex sindaco Barkat, ha fatto sapere di voler rimuovere dalla città ambulatori, strutture sportive e scuole dell’Unrwa, quindi anche da Shuafat, e di sostituire i servizi delle Nazioni unite per i profughi con quelli comunali. Una campagna contro l’Unrwa che il nuovo sindaco di Gerusalemme, il nazionalista religioso Moshe Lion, eletto al ballottaggio del 13 novembre, ha già abbracciato. «Siamo in balia delle manovre israeliane» ci dice Malhi «e qualunque sarà il loro esito a noi non ne verrà nulla di buono».

* Fonte: IL MANIFESTO[1]

photo: Israel Police [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)]

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